26 marzo 2007

Fare blogging, arte difficile

Un dibattito sta animando TocqueVille da un paio di giorni a questa parte. L’argomento è il blog, il suo ruolo informativo e, mi sembra, formativo nell’era di Internet. Ha cominciato Wind Rose Hotel, poi si sono aggiunti 1972, Nullo e JimMomo. Di grande interesse anche il riverbero che in questa discussione ha avuto l’analogo dibattito che si è svolto nella blogosfera britannica tra Oliver Kamm e Norman Geras. Di quest’ultimo, in un certo senso, è il contributo chiave, quello che focalizza il discorso sulla necessità di elevare il livello culturale della blogosfera.
Roberto, su WRH, ha giustamente lamentato un dato di fatto che mi sembra inequivocabile, e cioè che “pochi bloggers sollevano dubbi, pongono domande, esprimono una volontà di ricerca, prima di mettere in circolazione il proprio punto di vista”. E inoltre che “ci si attarda poco a citare e commentare opinioni altrui, autorevoli e collaudate, a vantaggio delle proprie, con un eccesso, a mio parere, di «autostima»”.
E’, in sintesi, la stessa sensazione che ho io quando navigo nella rete e trovo spessissimo esibizioni di pareri tanto poco o mal meditati quanto espressi con un eccesso di sicumera. Invece di riprendere e magari contestare qualcuno dei tanti magnifici editoriali che si scrivono in Italia e nel mondo, si pretende di dire la propria come se ci si sentisse degli Angelo Panebianco o dei Giovanni Sartori. Magari, per carità, tra tanti bloggers ci sarà anche qualcuno che, “da grande”, sarà autorevole e famoso, ma tanto per cominciare anche a questi geni in incognita manca quel minimo di esperienza che dà autorevolezza a un editoriale.
Direi che un po’ più di modestia non guasterebbe. E’ piuttosto fastidioso leggere un post in cui vengono ribaditi fino alla nausea i luoghi comuni che sono merce corrente nel dibattito partitico, spacciandoli per giunta come farina del proprio sacco. Fare più analisi e sparare meno sentenze sarebbe di gran lunga un esercizio meno sterile e più interessante per i lettori.
Come dicevo, comunque, Norman Geras ha colto il vro nocciolo della questione:
But if, from a democratic point of view, there is this shortcoming of debate on the blogs, it needs to be dealt with practically by trying to improve the culture of Internet discussion. There is nothing about the medium as such, about the sheer availability of this new space for debate, one open to much larger numbers of people and to every point of view, that impoverishes democracy.

07 marzo 2007

La questione socialista

Riprendo con un paio di giorni di ritardo la “questione socialista” (convegno di Bertinoro) di cui si è occupato Roberto su WRH con questo post. Poiché condivido pienamente la sua impostazione avrei ben poco da aggiungere, ma ieri, sul Foglio, Antonio Polito ha scritto un articolo sullo stesso argomento che mi sembra degno di attenzione. Lo riproduco per intero qui sotto. La conclusione è significativa: "Sarebbe un paradossale epilogo: perdere il riformismo per risuscitare il socialismo".

La proliferazione di partiti nel centrosinistra prosegue imperterrita. Ultimi arrivati i neo-soc, da pronunciare alla bolognese, detti anche rifondaroli socialisti. Vanno di fretta e hanno ragione. Tra il 22 aprile e il 6 maggio si colloca la data di scadenza del socialismo d’antan in Europa. Un eventuale flop della signora in rosso e del suo contorno di “elefanti” del vecchio Ps francese, a vantaggio del nuovo centro non-partisan di Bayrou o della nuova destra pro-Usa di Sarkozy, sarebbe un colpo alquanto letale per chi vuole far rivivere in Italia l’onorato nome socialista sotto spoglie necessariamente mentite. Un po’ elefanti, in fin dei conti, sono anche loro, quelli di Bertinoro. Intendiamoci, ogni volta che giurano che stavolta faranno la pace e stavolta passeranno sopra alle loro gelosie e stavolta si metteranno insieme, è sempre un bell’amarcord: ti viene perfino voglia di crederci, stavolta. Ma indipendentemente dalla loro buona fede, che è certa, e dall’affetto che quasi tutti si meritano, è qualcos’altro che non torna. Rileggo i nomi degli aspiranti neo-soc: De Michelis, Boselli, Formica; Turci, Caldarola, Macaluso. Lanciano ponti a Mussi e Salvi e dichiarano che, come loro, si opporranno perinde ac cadaver all’incontro tra gli ex comunisti e gli ex dc che si annuncia nel Partito democratico. Oibò. Ma i primi tre con i democristiani hanno lungamente coabitato negli stessi governi, e i secondi tre con i comunisti hanno lungamente convissuto nello stesso partito. Per Formica era più facile prendere un caffè con De Mita e per Macaluso più piacevole andare a pranzo con Cossutta, che frequentare oggi Rutelli e Fassino? Dicono che il problema è la laicità. Che il futuro Partito democratico sarà troppo compromesso con la questione cattolica. Oibò. Lo dicono i nipotini di Togliatti e dell’articolo 7 della Costituzione? Lo dicono gli eredi di Craxi e del nuovo Concordato? Lo dicono all’Ulivo, che per pronunciare timidamente un Dico, Direi o Dixit che dir si voglia, per poco non si rompeva l’osso del collo e perdeva il governo? Il laicismo come malattia senile del socialismo? Aggiungono che il problema è l’Idea Socialista che non muore. Immaginiamo che non si riferiscano alla moglie di Cuccia, ahinoi defunta. Alludono allora al socialismo, alla socializzazione dei mezzi di produzione, alla questione sociale, a tutte le idee del ’900 che cominciano con la radice “social” e che la nuova economia del Duemila ha sepolto con la vanga del “liberal”? Chissà perché, non ce lo vedo De Michelis discutere di liberalizzazioni o di legge Biagi con Salvi. E, se è per questo, neanche Caldarola dibattere di Israele con Mussi. Ma il nome, dicono, il nome conta. Non si chiamano forse socialisti tutti i partiti di sinistra in Europa? Beh, fino a un certo punto. Intanto quelli di maggior successo si chiamano socialdemocratici o laburisti, e i due più grandi hanno anche provato a cambiar nome, il New Labour di Blair e il Neue Mitte di Schröder, pur di trasformarsi in centrosinistra e non fare la fine di Jospin. Qualcun’altro ha perso il governo, come in Svezia o in Olanda, per non averlo saputo fare. Tutti hanno perso la fiducia socialista nel tax and spending, e si sono affidati alla mano visibilmente liberale del mercato, compreso l’amato Zapatero. Il teorico della Terza Via, Tony Giddens, scrive per questo che “il socialismo è morto”: ma non intendo continuare nella metafora funeraria, almeno non prima di vedere come va a Ségolène. E poi, nomina sunt o non sunt consequentia rerum? Tutti questi partiti europei del loro nome si occupano poco perché la loro cosa veleggia tra il 25 e il 35 per cento dell’elettorato, tra le dieci e le venti volte più di quanto possono realisticamente sperare di ottenere, sempre che lo sbarramento sia generoso, i rifondaroli socialisti italiani. Il loro apporto alla rinascita dell’Idea in Europa tenderà a essere, nella migliore delle ipotesi, un po’ labile. A meno che. In effetti un nucleo di pulsioni che il ’900 avrebbe definito “socialiste” da noi resiste. C’è ancora gente in Italia che continua a credere nel riscatto del proletariato e nel conflitto sociale, nell’alta tassazione e nella redistribuzione, nell’azione collettiva e nello sciopero politico, nella piazza e nel movimento, nel pacifismo e nel terzomondismo, e che considera l’economia liberale nemica giurata del progresso dell’umanità. Anche loro sono al momento impegnati in una Rifondazione, ma non è detto che un giorno non possano cambiare l’aggettivo che la qualifica. Finirà così, da Bertinoro a Bertinotti? Il Fausto è furbo e, tutto sommato, viene anche lui dal socialismo (del Psiup). Sarebbe un paradossale epilogo: perdere il riformismo per risuscitare il socialismo.

01 marzo 2007

Le due sinistre

Il teorico della "Terza via", nonché mentore di Tony Blair, Lord Anthony Giddens, ha scritto un articolo, uscito ieri su La Repubblica, in cui parla delle due sinistre che si confrontano oggi nel mondo: quella riformista e quella radicale, naturalmente. Si parla anche del recente libro di Nick Cohen, "What's Left?" e dell'Italia, che ha "un bisogno di­sperato di riforme e innova­zione". Molto interessante e, dal mio punto di vista, estremamente condivisibile. Ho riprodotto l'articolo per intero:

Le due sinistre
di Anthony Giddens
La Repubblica, 27 febbraio 2007


In Gran Bretagna è stato appena pubblicato un libro molto interessante che si intitola What's Left?. Ne è au­tore Nick Cohen, un insigne giornalista di sinistra, sociali­sta sin da giovane, ma che og­gi riconosce che il socialismo è morto da quando l'utopia di un'economia post-capitalista non è più all'ordine del giorno. La morte del socialismo, dice Cohen, ha portato una "tetra liberazione" a chi era schiera­to con la sinistra più radicale. Al posto di prefigurarsi un fu­turo socialista, adesso questa sinistra è libera di accompa­gnarsi a qualsiasi movimento, purché sia contro lo status quo e, più specificatamente, con­tro l'America. Qualsiasi cosa possa pregiudicare la posizio­ne dell'America nel mondo è sottoscrivibile. Chiunque sia contro gli Stati Uniti tout court è patrocinabile. Tutto ciò spinge la sinistra radicale in direzione di alcune visioni del mondo del tutto irrazionali.

Perché mai, si chiede Cohen, la sinistra sottovaluta la minaccia che l'Islam mili­tante rappresenta per i valori dell'Occidente? Questa forma di Islam incarna tutto ciò ver­so cui la sinistra fa mostra di provare avversione: è contro la libertà di espressione, non ammette i valori liberali e cre­de nell'oppressione dichiara­ta del sesso femminile, ivi compresi i delitti d'onore. Perché la Palestina è una causa per la quale la sinistra si bat­te, ma così non è per la Cina, il Sudan, lo Zimbabwe, il Congo e la Corea del Nord? Perché co­loro che hanno marciato ma­nifestando contro l'invasione dell'Iraq non hanno condan­nato il regime fascista di Saddam Hussein con la stessa veemenza con la quale hanno avversato la guerra?

Nel momento in cui il gover­no Prodi è caduto perché due senatori non erano disposti ad accettare la presenza dei sol­dati italiani in Afghanistan o l'allargamento della base Na­to di Vicenza, questi sono interrogativi pertinenti. I Taliban si preparano a scagliare un'offensiva in primavera e la Nato sta portando avanti in Afghanistan un incarico mol­to importante, che vede coin­volti i soldati di vari Paesi. Davvero i contrari a questa missione preferirebbero che l'Afghanistan facesse ritorno a una società dominata da una consorteria religiosa che è tra le più intolleranti e prevaricatrici al mondo? Si può essere d'accordo o in disaccordo con l'iniziale intervento militare in Afghanistan, ma adesso ab­bandonare quel Paese sareb­be il colmo della follia e dell'ir­responsabilità.

Nondimeno, la sinistra oggi è divisa al proprio interno. La sinistra radicale non solo è una variante più avventurosa di riformismo: essa ha altresì una visione completamente diversa del mondo, una che potremmo a ragion veduta de­finire reazionaria. Gli odierni radicali di sinistra sono con­servatori sotto mentite spo­glie. Persistono ad avere una mentalità da Guerra Fredda, ben dopo la scomparsa di quel mondo bipolare. Tuttora spe­rano ... che cosa?

Un ritorno al socialismo o al comunismo non potrà verificarsi, dal momento che era er­rato - così oggi noi riteniamo -il presupposto dal quale parti­vano entrambi, vale a dire il fatto che lo Stato potesse sosti­tuirsi ai mercati nell'adeguare la produzione alle necessità umane. Soltanto i mercati ca­paci di reagire ogni giorno a milioni di indici dei prezzi sa­ranno in grado di affrontare le enormi complessità delle eco­nomie moderne. Questo non significa che dovremmo esse­re alla mercé dei mercati, non più di quanto siamo alla mercé dello Stato. Una società positiva che la sinistra dovreb­be sostenere a livello locale, nazionale e globale è quella che sa controbilanciare un mercato efficiente e un gover­no democratico e dinamico, unitamente a una sfera civile solida, che prende parte a ogni processo; un ordine sociale contrassegnato dalla libertà di azione e di espressione, dalla legalità e dall'uguaglianza tra uomini e donne. Questi sono ideali concreti, non fantasie utopistiche, e sono ideali per i quali vale la pena combattere. La caduta del socialismo non corrisponde alla fine della si­nistra. L'obiettivo di creare una società che sappia abbi­nare prosperità e solidarietà a un basso livello di inegua­glianza è quanto mai vivo.

È triste per me, sostenitore tenace di un centrosinistra coeso in Italia, constatare che pochi individui — di sinistra — potrebbero ancora una volta riconsegnare il governo del Paese alla destra politica. Che genere di politica è mai questa nella quale non vi è senso del­la responsabilità collettiva, nella quale il bene più grande del Paese è sacrificato sull'al­tare della correttezza politica?

A un osservatore esterno tutto ciò appare privo di senso. A me sembra che alcune persone appartenenti alla sinistra tra­dizionale molto semplice­mente non siano pronte ad ac­cettare le responsabilità di governo. Sono felici soltanto all'opposizione, quando di ogni cosa è possibile biasimare la destra, in modo alquanto con­veniente e familiare. Ciò ben si confà a quello che afferma Cohen: solo quando si sa con­tro cosa si è, e non per che co­sa ci si batte, allora, innegabilmente, si è più contenti all'opposizione.

La sinistra tradizionale for­se oggi può ancora trovare qualcuno da ammirare, Hugo Chavez in Venezuela, per esempio, o Evo Morales in Bo­livia, o forse ancora, Fidel Ca­stro. Anche loro ascrivono tut­ti i mali del mondo agli ameri­cani, oppure alle grandi e cat­tive corporation. Nondime­no, si guardi con attenzione a quello che questi leader stan­no facendo nei loro Paesi: Chavez in Venezuela sta distruggendo la democrazia, promette di utilizzare i pro­venti del petrolio nazionale per aiutare gli indigenti, ma da quando egli ha assunto la lea­dership la percentuale di chi è in situazione di povertà è di fatto cresciuta. Morales sta nazionalizzando l'industria petrolifera boliviana, metten­do così in fuga quegli stessi in­vestitori d'oltreoceano di cui l'industria del Paese ha urgen­temente bisogno, se intende essere competitiva e contri­buire allo sviluppo di quella povera nazione. Cuba da qua­ranta anni è una dittatura, con un'infrastruttura economica che è andata letteralmente a pezzi da quando gli aiuti pro­venienti dall'Unione Sovieti­ca sono cessati. Per contro, sotto i governi riformisti di Ri­cardo Lagos, e attualmente di Michelle Bachelet, il Cile è di­ventato la nazione di maggior successo dell'America del Sud. Questo è il Paese al quale gli altri della regione dovreb­bero guardare, per prenderlo a modello per il loro stesso fu­turo. La percentuale di perso­ne che vivevano sotto la soglia di povertà è scesa dal 30 per cento e più di dodici anni fa al­l'odierno 18 percento.


L'Italia ha un bisogno di­sperato di riforme e innova­zione. Dal mio punto di vista soltanto un centrosinistra progressista potrà fornirglie­le. Sia nel caso in cui l'attuale governo sopravviva, sia nel caso in cui esso invece non sopravviva, i progressisti in Ita­lia devono continuare a per­seguire un raggruppamento politico efficiente e integrato. Meglio ancora, un unico Par­tito Democratico, in grado di arrivare al potere e restarvi, senza più dover dipendere - ammesso che ciò sia possibile - da coalizioni fragili ed effi­mere, delle quali fanno parte gruppi politici la cui visione appartiene a un mondo ormai scomparso. Questo è un obiettivo da perseguire con ri­generato vigore e rinnovato impegno, qualsiasi cosa acca­da a breve termine.