06 dicembre 2006

Il realismo di Benedetto XVI

Il rapporto Occidente-Islam, l'approccio di George W. Bush e quello di Benedetto XVI messi a confronto (e chi ne esce meglio è il papa). Tutto in un articolo di Jeff Israely scritto per Time Magazine e ripubblicato in traduzione italiana sul Foglio:

Benedetto realismo
Ecco perché l’ultimo grande realista
non è il B. che si trova a Washington,
ma il B. che si trova inVaticano


Paragonare la diplomazia vaticana a quella di qualsiasi altra nazione laica è un’operazione rischiosa. Paragonare l’odierno stato della chiesa con gli Stati Uniti, la superpotenza politica e militare del XXI secolo, è senza dubbio sconsigliabile. E, naturalmente, paragonare il presidente George W. Bush a Papa Benedetto XVI è pura follia. Ciononostante, quando ci sono troppe domande e troppe poche risposte per i nostri tempi incerti, quando l’America di Bush sembra avere esaurito la propria leadership nella risposta occidentale al terrorismo islamico e la chiesa di Benedetto è scesa in campo, quando la posta in gioco è altissima, viene la tentazione di cercare qualche ispirazione sul terreno scivoloso di una analogia così dissacrante. Quindi, chiedendo in anticipo il perdono di coloro che conoscono a fondo la situazione sia sulle rive del Tevere che su quelle del Potomac, ecco un articolo già macchiato prima ancora di cominciare. Questo esercizio d’analisi comincia con l’11-12 settembre 2006. Ripensandoci, possiamo dire che l’anniversario dei cinque anni del giorno che ha cambiato il mondo è stato in effetti il funerale del metodo Bush per la lotta al terrorismo. Quel giorno il presidente ha cercato di fare la stessa cosa che aveva fatto in occasione dei precedenti anniversari, ossia ricordare al mondo la minaccia mortale sferrata da al Qaida con l’attentato alle due torri e difendere la validità delle sue scelte di politica estera. Per la prima volta, però, nessuno ha dato credito alle sue parole, visto che l’Iraq è sempre più fuori controllo e persino i sostenitori del presidente si domandano se la politica americana in Iraq non serva ad altro che a nutrire il nemico. Meno di due mesi dopo l’anniversario, i repubblicani hanno perso la maggioranza nel Congresso, facendo crollare l’ambiziosa e rigida visione di Bush per ridisegnare la mappa del medio oriente con la forza militare.

L’Iraq di Bush, la Ratisbona di Ratzinger
Il giorno dell’anniversario, Papa Benedetto XVI, in visita nella sua città natale di Mark am Inn, non ha detto nulla sull’11 settembre. Se lo è tenuto per il giorno dopo. In un sol colpo, con il suo discorso di Ratisbona, il pontefice romano ha preso il posto del presidente americano quale figura controversa all’avanguardia occidentale dello scontro di civiltà. Dopo cinque anni, il Papa è stato il primo leader mondiale a dire chiaramente che le fonti del terrorismo islamico possono essere rintracciate all’interno dello stesso islam. L’ironia sta nel fatto che Bush ha sempre ripetuto che “l’islam è una religione di pace”, ma allo stesso tempo ha scatenato una guerra che la maggior parte del mondo musulmano considera come una crociata contro la loro religione. Benedetto, invece, ha messo in discussione le stesse radici di questa fede e la sua attuale battaglia interna con la violenza, ma, allo stesso tempo, ha proposto la pace come punto di partenza politico. Qui, naturalmente, l’argomentazione diventa fragile. Sappiamo che il papa è un leader senza esercito e con l’obbligo di predicare un vangelo di salvezza spirituale, mentre il primo compito del presidente è quello di garantire la sicurezza dei propri cittadini. Ciò che, tuttavia, appare paragonabile è la portata globale delle loro azioni e la loro necessità di rispondere agli eventi. Entrambi gli uomini hanno idee molto chiare, grandi ambizioni e, senza dubbio, la consapevolezza della propria responsabilità. La giustezza dell’idea originale – invadere l’Iraq o invece decidere di usare forti argomenti teologici per parlare di islam e violenza – è soltanto il punto di partenza. Ogni leader, ogni nazione e ogni chiesa deve dare una veste concreta alle proprie decisioni politiche in un mondo fluido e imprevedibile. Forse più che per l’idea dell’invasione (che gode di ampi consensi tra gli americani), Bush sarà ricordato per la rigidità con la quale ha condotto la guerra, fino al punto da sembrare non più in contatto con la realtà. Da un certo momento in poi è sembrato inutile, tanto per gli alleati quanto per i nemici, stare ad ascoltare ciò che diceva. Le immagini televisive dei massacri di Baghdad parlavano da sole. Dopo il discorso di Ratisbona, invece, Benedetto ha dato prove planetarie di un solido e immediato realismo. Senza dubbio, è più difficile ritirare un esercito che andare a visitare una moschea; ma, per quanto riguarda i rapporti diplomatici, la più grande bugia è che la flessibilità sia un segno di debolezza. E nel caso di Benedetto, ha offerto la possibilità – quando sarà il momento propizio – di riprendere la discussione, avviata a Ratisbona, sulle radici religiose della violenza e dell’oppressione. Se il Papa non riesce a riprendere questa discussione sarà l’equivalente di una fuga dalla battaglia. Se invece ci riesce, la diplomazia vaticana potrebbe dimostrarsi molto più potente di innumerevoli eserciti. (traduzione di Aldo Piccato)

03 dicembre 2006

Camici bianchi

Curiosando nella blogosfera ho letto un post, in un blog amico, che mi ha ricordato qualcosa. (Non metto il link perché si parla di cose di famiglia (anche se, diciamo, son cose d'ordinaria amministrazione), e oltretutto mi sembra che la blogger in questione sia persona riservata che non gradirebbe particolarmente.)
Sì, il breve quadretto familiare mi ha ricordato l'antipatia e la diffidenza che ho sempre avuto per gli ospedali e per la "sanità" in generale. Intendiamoci: massimo rispetto per "scienza medica", i medici, il pesonale sanitario, le medicine, ecc. Però ... non mi fido, e se Dio vuole voglio stare alla larga il più possibile.
Non è solo questione di pregiudizi, è "anche" questo (perché il pregiudizio ce l'ho, è inutile egarlo), ma non solo questo. Sono stato testimone di qualche caso, e ... ho perso anche quel poco di fiducia che pure avevo fino a qualche anno fa. Non è neppure antipatia per i "camici bianchi" (quella non c'è, lo garantisco, anche se ho conosciuto dei presuntuosi che non sto neanche a dire ...).
E' che "la medicina" in quanto tale non mi convince neanche un po'. E' una "scienza" che non è una scienza, un'arte che non è un'arte. Non è una scienza perché di esatto non c'è quasi niente, non è un'arte perché di creativo, nella classe medica, non c'è rimasto più niente. I vecchi medici di famiglia, quelli che ti guardavano e "capivano" non ci sono più. Io me ne ricordo uno, quando ero piccolino: un mago, uno stregone fantastico che capiva al volo cosa avevi e ci azzeccava sempre, e aveva una sana diffidenza per la "scienza medica". C'era una relazione tra quella diffidenza e la sua bravura di medico? Io dico di sì. Ma, per amor del cielo, io esprimo solo un'opinione strettamente personale. Comunque sto alla larga. Non so se mi spiego.

18 novembre 2006

Mostri?

I miei figli, per fortuna, sono già grandi, abbastanza per essere al riparo da quella che sembra essere una pericolosa deriva ... Comunque questa riflessione di Antonio Scurati mi sembra fare giustizia di qualche semplificazione di troppo.

Violenti depravati cattivi...
La Stampa
17/11/2006
di Antonio Scurati

Questi ragazzi vivono immersi in un ambiente violento. Il loro non è semplice bullismo. Sono violenti, sono depravati, sono cattivi». Così dice la preside della scuola torinese dove quattro studenti hanno seviziato un loro compagno disabile davanti a una telecamera, per poi diffondere su Google il video del loro misfatto. E' vero. Ha ragione la preside. Questi ragazzi sono violenti, sono depravati, sono cattivi. Sono i nostri ragazzi.

Riconoscerli come «nostri» non conduce a nessun indulgente sociologismo. Capire in che cosa sono «figli del nostro tempo» significa capire che il nostro tempo è il loro tempo. Che il mondo adulto non è più padrone in casa propria. Non è del tutto priva di fondamento la paranoia collettiva che spesso ci fa avvertire i giovani come un'orda di assalitori barbarici guidata dalla stella della predazione. La distanza tra le generazioni non è più stata percepita in modo tanto drammatico almeno dal '68 in qua. Ora, però, non essendoci più una precisa linea di demarcazione ideologica o di rivendicazione politica a dividere l'animale vecchio da quello giovane, l'inflessibile alterità dei «nostri» ragazzi risulta ancora più inquietante di allora. Appare quasi come l'effetto di una mutazione etologica. E' come se, in seno alla specie umana, si fosse prodotta una subspeciazione. La mutazione, però, è ovviamente culturale e tecnologica.

In primo luogo, non dobbiamo dimenticare che la sfrenatezza, sessuale e distruttiva, dei nostri ragazzi è il lato lugubre di un giubilante giovanilismo. La paranoia anti-giovanile è il rovescio del delirio giovanilistico. Oggi, buona parte della vita sociale, culturale ed economica degli adulti ruota attorno a un simulacro della giovinezza, pencolando tra idolatria e mercificazione. I corpi degli adolescenti sono al centro di un vero e proprio culto sociale e lo scatenamento della libido sessuale, tipico della pubertà, è incitato più che inibito dalla cultura dominante. Insomma, il nostro mondo è il loro mondo e loro ne fanno quello che vogliono. I quattordicenni che, in gruppo, si approfittano sessualmente di una loro insegnante, presumibilmente disturbata, in un bagno di una scuola dell'hinterland milanese come se fossero in un film porno, sembrano quasi eseguire un mandato collettivo. Sono la spia patologica di una normalità abnorme.

In secondo luogo, la loro sfrenatezza manifesta l'assenza del grande inibitore: il senso della morte. I nostri ragazzi sono i figli di una cultura che ha sottoposto a violenta rimozione il senso del tragico. La nostra cultura. Sono crudeli perché noi non gli abbiamo insegnato la morte e la sofferenza. La nostra morte. Morte e sofferenza non sono affatto un dato naturale, come credono gli sciocchi, ma un'esperienza costruita culturalmente. La crudeltà degli adolescenti è un difetto di immaginazione, è l'aberrazione del grande tema sacrificale: quando vedono qualcuno morire o soffrire, non pensano più «quello muore o soffre al posto mio», ma «quello muore o soffre e io no».

L'aspetto agghiacciante dell'episodio della scuola «Albe Steiner» di Torino non sta nel fatto che quattro adolescenti abbiano seviziato un loro compagno, ma che lo abbiano fatto per filmarlo. Hanno perpetrato e vissuto un gesto efferato come uno pseudo-evento, un accadimento creato appositamente per i media. Erano già gli spettatori di loro stessi mentre compivano il male. Questo il risultato della canonizzazione della posizione del telespettatore attuata dalla società dello spettacolo: si impara a rimanere impassibili e indifferenti dinanzi al dolore degli altri. Caso mai, intrattenuti e divertiti.

Noi adulti, d'altronde, li abbiamo educati a rimanere spettatori dinanzi a guerre televisive che provocano centinaia di migliaia di morti. Questo il mondo che abbiamo lasciato in eredità ai nostri ragazzi. Un mondo senza di noi. In questo mondo, infatti, gli «altri» non esistono se non come immagini in un video, simulacri e strumenti del nostro piacere di guardare. E noi adulti, è bene non dimenticarlo, siamo gli «altri» sugli schermi delle vite dei nostri figli.

10 novembre 2006

Una grande democrazia

Dice bene Roberto Piccoli su WRH: l'aricolo di Vittorio Zucconi sul voto americano è da conservare:

Martedì non ha vinto la sinistra, né perduto la destra. Ha vinto l'America moderata e pragmatica, quella che accetta, si emoziona, si mobilita, ma poi misura, pesa e licenzia in tronco.

E su Bush ecco un inatteso elogio:

È stato comunque ammirevole, il presidente Bush, a offrirsi ai giornalisti in diretta tv la mattina dopo la Little Big Horn repubblicana. Ha avuto coraggio e senso sportivo di fronte alla disfatta, perché Bush è americano, cresciuto nel culto della volontà popolare, non importa quanto risicato sia il margine, e ha vissuto in prima persona gli alti e bassi delle fortuna paterne, esaltato e poi sconfitto, nel 1991. "Sono stato varie volte in questo rodeo", ha sorriso con tono riflessivo e ironico (...).

Solo da una grande democrazia ci si può aspettare questo tipo di spettacolo. Concordo con Roberto: Grazie America è il commento migliore che si possa fare.

06 novembre 2006

Aspettando il referendum

Il costituzionalista Giovanni Guzzetta ha messo a punto alcuni ingegnosi quesiti referendari che, in caso di vittoria dei «sì», cambierebbero radicalmente il nostro sistema elettorale. Come osserva Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, ne verrà fuori un terremoto politico:

Spostando il premio di maggioranza, come prevede uno dei quesiti referendari, dalla coalizione al singolo partito la riforma darà un colpo all'attuale, esasperatissima, frammentazione partitica, obbligherà le forze, a destra come a sinistra, ad unirsi, ad aggregarsi. Con le nuove regole, chi darà vita a una grande formazione politica avrà più probabilità di conquistare il premio di maggioranza e vincere le elezioni. Il che innescherà, verosimilmente, a destra e a sinistra, una corsa all'aggregazione. Tale riforma favorirebbe, probabilmente, la nascita del Partito democratico (a sinistra) e del partito unico dei moderati (a destra). E darebbe più stabilità e compattezza ai governi.

In primavera inizierà la raccolta delle firme. Io mi preparo a firmare.

22 ottobre 2006

A proposito di complotti

Sergio Romano, editoriale del Corriere di oggi (nessuno si meravigli se queste parole suonano un pochino banali, ci si preoccupi piuttosto di ciò che le ha provocate):

Non credo vi sia stato un altro momento politico, dopo Tangentopoli, in cui i sentimenti di stima e fiducia della società per il vertice del Paese, soprattutto politico ma anche economico, abbiano toccato un punto così basso. (...) Le teorie del complotto rischiano di offuscare i termini del problema. La minaccia che incombe sul governo Prodi non viene, in ultima analisi, da una congiura trasversale dei suoi nemici. Il malessere nasce all’interno della coalizione e contagia il Paese. Il presidente del Consiglio ha un alto concetto di sé, si è fissato una rotta ed è convinto di poter tagliare il traguardo.
Ma non può ignorare che il suo governo è un coro di voci discordanti, che mai prima d’ora ministri e sottosegretari avevano dimostrato nei loro pubblici litigi un così scarso senso del pudore e che l’opinione pubblica attribuisce alle pressioni dell’estrema sinistra molte misure discutibili della Finanziaria. Anziché sospettare le intenzioni dei suoi nemici (non vi è governo che non ne abbia) Prodi dovrebbe interrogarsi sul malumore del Paese. Scoprirebbe che il «complotto » è il meno grave dei pericoli a cui deve far fronte.


Poi, in un'intervista a Repubblica, il premier si è pentito ("Nessun complotto"), ma intanto si è meritato questa bacchettata.

20 ottobre 2006

Sulla religione della Right Nation

Lo avevo chiamato in causa (vedi post precedente), ma non mi sarei mai aspettato di leggere una cosa "trasversale" per tutta risposta. Cosa vuol dire, nella fattispecie, "trasversale"? C'è solo un modo per scoprirlo: andare qui e poi fermarsi a riflettere un attimo. Dopo un po' ti accorgi che quella "trasversalità" è la risposta che andavi cercando, probabilmente l'unica sensata. Un grande post.

18 ottobre 2006

Dio e politica: il caso americano

L'argomento religione e politica tiene sempre più spesso banco sui media e nella blogosfera (più in Italia che altrove, mi sembra: in Gran Bretagna, ad esempio, dove mi trovavo fino a qualche ora fa, non mi risulta). Non è un campo di mia competenza e quindi, più che commentare, posso segnalare, anche se qualche idea in materia posso avercela anch'io, o meglio, se vogliamo campo un po' di rendita visto che di solito mi ritrovo nell'impostazione che al problema viene data da Roberto su Wind Rose Hotel (vedere ad esempio questo post di ieri) o da Norman Geras.
Oggi, comunque, mi sembra doveroso segnalare ciò che ha scritto Christian Rocca sul Foglio. Ma sarei curioso di leggere qualche comento in prposito: se a Roberto fischiano le orecchie la cosa non deve ritenersi casuale.

17 settembre 2006

Un addio a Oriana

Di Oriana Fallaci si può dire tutto, meno che non sia stata una donna straordinaria. Dopo l'11 settembre ha conosciuto una "seconda giovinezza" intellettuale e civile. Ha scosso l'opinione pubblica, l'ha sconcertata e sconvolta, ma ha detto soltanto la verità, anche se in modo volutamente provocatorio e violento. Anche se non è mai stata un mito per il sottoscritto, non posso fare a meno di riconoscerne la grandezza solitaria. Ma qualunque cosa io possa dire su di lei, non renderebbe mai l'idea di cosa penso di Oriana meglio di questo post.

22 agosto 2006

L'interpretazione, cioè la maledizione dell'islam

Quello di Hina Saleem "non è il primo né il centesimo caso, ma molto di più. E non sarà l’ultimo". Lo ha detto al Meeting di Rimini il gesuita egiziano Samir Khalil Samir, cioè il massimo studioso cristiano di islam (insegna all’Università Saint-Joseph di Beirut e al Pontificio istituto orientale di Roma ed è l'autore di "Cento domande sull’islam"). Nel suo intervento Samir ha affrontato il tema dell’apostasia e della libertà religiosa nell’islam, e Il Foglio (di oggi) ha raccontato quello che ha detto. Una lettura che chiarisce un po' di cose:

“Nell’islam la donna rappresenta l’onore – spiega al Foglio – Si perme il peggio, purché non vengano toccate le donne dei musulmani. Se semplicemente vuole vivere al di fuori della comunità è lo scandalo assoluto. Fino a trent’anni fa, data d’inizio di quest’ondata islamista, la maggioranza delle donne che ho conosciuto non si copriva in questo modo. La tendenza radicale oggi è spaventosa, nasce prima di Khomeini, si origina nel 1974 con l’Arabia Saudita e i Fratelli musulmani”. Se al posto di Hina ci fosse stato Mohammed, secondo Samir avrebbero detto: “Beh, l’uomo è l’uomo. La donna incarna tutto il male della società islamica. La donna rappresenta la bellezza dell’islam e il rigore dell’islam, pensiero che si è rafforzato nello scontro di civiltà con l’occidente. Posso baciare la mia fidanzata a casa, ma non per strada. E’ scandalo persino che per strada ci si tenga per mano. L’islam oggi nasconde la donna totalmente e non era mai accaduto prima, a parte gruppi wahabiti, salafiti e afghani. La presenza in occidente ha incoraggiato, anziché la libertà, la clausura”.

Ci racconta un episodio di cinque anni fa a Torino. “Venne fuori la storia delle foto delle donne marocchine sulla carta d’identità. Erano tutte con il velo. La polizia obiettò che non era ammesso, l’imam somalo rispose che quella era la legge dell’islam. ‘hanno cercato un gesuita egiziano…’, dissero. Due giorni dopo si scopre che quelle donne sul passaporto marocchino non avevano la testa velata. L’imam somalo rispose che quando erano in Marocco non avevano capito bene l’islam, a Torino tutto era più chiaro.

‘Se l’apostata non ritorna deve essere ucciso’, dice il rettore dell’Università Al-Azhar. Il motivo è la ‘fitna’, la sedizione, l’apostata è in guerra dichiarata con l’islam. ‘Uccideteli ovunque li incontrate’ dice la sura della Vacca. La conversione e l’apostasia sono un atto di offesa all’islam e alla ummah”. Al terrorismo nutrito dal multiculturalismo, padre Samir associa il comportamento dell’Europa nel caso di Ayaan Hirsi Ali. “Mi vergogno per il ministro olandese e per il paese che l’ha condannata. Erano gli stessi funzionari che le avevano detto cosa dire per poter essere accolta. Tutti hanno taciuto.

Dietro al pensiero islamico arcaico c’è una critica, spesso fondata, all’occidente. I musulmani quando arrivano in Europa pensano che qui se ne fregano di Dio, loro invece ad Allah ci tengono. L’occidente allora che fa? Reagisce con il mea culpa, si batte il petto, basta attaccarli e gli occidentali si ritirano”. L’islam, che sembra fortissimo, attraversa in realtà una grande crisi. “E’ come un adolescente stupido che attacca tutti. Fa proseliti su proseliti perché l’occidente si autonega, si vergogna di sé e fa del dubbio il valore assoluto. Così è il momento della propaganda islamica e si diffondono senza precedenti. L’islam sogna il X secolo, ‘più saremo fedeli alla lettera del Corano più saremo vittoriosi’.

I terroristi di Londra erano ben integrati quando hanno incontrato qualcuno che ha detto loro ‘voi sbagliate, venite da noi’. A Parigi vado ogni anno nelle banlieu fra i giovani musulmani. Ho visto che si mettono l’abito bianco lungo, si fanno crescere la barba profetica e indossano un berretto in testa quando non vogliono essere più un numero che non vale niente. Per affermare la propria identità si definiscono come un anti, diversi. E’ nella moschea che ricevono tutto questo. Lì trovano predicatori allenati all’odio e a insegnare a combattere per il jihad. Gli imam devono essere controllati duramente, altrimenti il terrorismo fiorirà sotto i nostri occhi e dentro le nostre case”.

Veniamo ai motivi per cui questo posato studioso del Corano, dall’accento francese e dai modi gentili, esclude che possa verificarsi a breve una riforma dell’islam. “L’abisso è nell’ermeneutica, l’interpretazione. Il cristiano dice che la Bibbia viene da Dio, il musulmano che il Corano viene da Dio. Come si spiega però il divino in termini umani? Il cristiano dice che chi scrive è ispirato dallo Spirito Santo, è il contenuto che viene da Dio. Riconosce che i Vangeli sono umani, perciò dico ‘secondo Giovanni’. Questa distinzione permette l’interpretazione. L’islam dice che il Corano è scritto presso Dio, nel cielo, ed è disceso su Maometto tramite l’angelo, non l’uomo. Se è così non si può più estrarre il contenuto dalla forma materiale. Il ripensare l’islam è quindi impossibile”.

Ma il fatto più grave è che l’islam sia nato come progetto politico: “Il cristianesimo è un progetto di riforma della società anche politica, ma sempre attraverso il cuore della persona. L’islam è progetto politico, militare, di conquista e integrale. Maometto ha diffuso la sua visione di Dio nella penisola arabica conquistando le tribù una dopo l’altra e decapitando la tribù ebraica Banu Qurayza. Cristo viene ad annunciare e i suoi lo rigettano. Maometto predica e i suoi lo rigettano. Poi Cristo sale a Gerusalemme e si offre alla morte. Quando Pietro tira fuori la spada lo ferma. Maometto invece si ritira a Medina, condanna La Mecca, ‘infedeli’, prepara una città e una società fortissima, piccole conquiste e acquisti. Quando è forte, attacca e rientra vittorioso. Cristo invece rientra vittorioso spiritualmente ma disfatto umanamente, con questa disfatta vince la morte. La riforma dell’islam deve essere fatta dai musulmani, ma quando ci provano vengono subito eliminati. E’ ciò che il cristianesimo invece ha compiuto nel Settecento, molto prima dell’illuminismo”.

13 agosto 2006

Allam: ecco l'essenza del fascismo islamico

“All'Italia dei tuttologi di professione e all'Occidente degli islamologi infatuati dall'homo islamicus”, ma anche a Gilles Kepel, che ieri in un'intervista a Repubblica, negava l'esistenza di un «fascismo islamico» perché «i gruppi terroristici islamici sono il contrario di un movimento di massa», Magdi Allam dedica sul Corriere della Sera di oggi una riflessione di quelle da non perdere. Eccone un brano (ma, appunto, è meglio leggere tutto il pezzo):

L'essenza del «fascismo islamico» è insita nella negazione del diritto alla vita altrui, sia che si tratti di un «apostata » o un «eretico», sia che sia considerato un «nemico» quale ebreo o crociato cristiano. Per la verità la radice del male è interna all'Islam e si fonda sul disconoscimento della pluralità delle comunità religiose, giuridiche, ideologiche e culturali che da sempre connotano la galassia islamica. Noi continuiamo a parlare di Islam al singolare, mentre in realtà si coniuga al plurale così come è il caso del cristianesimo. Sono gli estremisti islamici che vorrebbero accreditare la percezione di un blocco monolitico dell'Islam, dal momento che si considerano detentori della «Verità», mirando a imporre il loro potere assoluto ed egemone. Finendo per delegittimare e condannare a morte tutti coloro che non sono a loro immagine e somiglianza e non si sottomettono al loro arbitrio. È questa l'essenza del «fascismo islamico», che esiste da sempre, alimentato da una cultura dell'odio e della morte di cui gli stessi musulmani sono al contempo i carnefici e la gran parte delle vittime. È questo «fascismo islamico» che ha provocato la cacciata o la fuga, nel corso degli ultimi cinquant'anni, di un milione di ebrei, di 10 milioni di cristiani e di un numero superiore di musulmani dal Medio Oriente.

06 agosto 2006

Tra Hezbollah e Israele

La bozza Francia-USA è stata presentata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il documento invoca «la piena cessazione» delle ostilità fra Iraele e Hezbollah. Attenzione: si parla di "operazioni «offensive»", non di "tutte" le operazioni. Scrive il Corriere che "questo è un nodo essenziale che molti hanno immediatamente sottolineato come una vittoria di Gerusalemme. Se attaccati gli israeliani potranno infatti rispondere al fuoco. La risoluzione non dice nulla inoltre sulla presenza militare israeliana nel sud del Libano. La smilitarizzazione della zona di cuscinetto tra la Linea Blu e il fiume Litani è posticipata alla seconda fase nella soluzione della crisi. Che sarà l’oggetto di una seconda risoluzione del Consiglio e si parla di settimane di lavoro e diplomazia."

Adesso speriamo bene. Nel frattempo, suggerisco un'attenta lettura di due editoriali molto opportunamente segnalati da Wind Rose Hotel: uno di Magdi Allam e l'altro di Angelo Panebianco (entrambi, naturalmente, usciti sul Corriere della Sera. Concetti non nuovi, in linea di massima. Ma "repetita juvant".

28 luglio 2006

Un deserto chiamato Londra

Londra con 36° di massima è un’esperienza che avevo già fatto un po’ di anni fa, ma allora si trattò di un periodo piuttosto breve, mentre il caldo di questo mese di luglio è ben più insistente. E’ uno spettacolo deprimente vedere i parchi bruciati dal sole il colore dominante è il giallo. “Desert London”: così titolava l’Evening Standard qualche giorno fa (prima pagina, caratteri cubitali, foto dall’alto di un Hyde Park irriconoscibilmente giallo) che prendeva tre quarti della pagina.
A quanto pare il gran caldo si è fatto apprezzare un po’ dappertutto, e questo mi consola. Ma bisogna dire che la sera, qui a Londra, si sta benissimo. E all’ombra si sta bene anche alle due del pomeriggio. Mentre in Italia, come sappiamo, non è così. Se qualcuno, comunque, mi viene a dire che l’effetto serra è una balla e che tutto va come sempre giuro che lo strozzo. Anzi, bisognerebbe fare una legge ad hoc: chi va spargendo certe leggende metropolitane va carcerato ed esiliato. E se non basta va pure menato. (C’è una certa esasperazione, non fateci caso …)

10 luglio 2006

Soddisfazioni inattese

Scrivere qualcosa sulla vittoria italiana al mondiale di calcio stando all'estero (al momento in Gran Bretagna) è sicuramente piacevole e gratificante. Oggi sento e vedo intorno a me quanto questo sport sia davvero un fatto globale e che appassiona la maggior parte del genere umano. Gli inglesi, che sono sempre molto "sportivi" (un po' meno quando gioca la loro nazionale, veramente ...) sono ammirati per il carattere e l'intelligenza degli azzurri, e preferiscono di gran lunga l'Italia sul podio al posto della Germania e della stessa Francia. E' una bella senzazione, all'estero, assistere a uno spettacolo del genere. Non pensavo che mi avrebbe emozionato tanto. Alla fin fine mi scopro meno insensibile di quel che pensavo di fronte a questo tipo di soddisfazioni. Ed anche di questo penso di dover ringraziare i ragazzi di Lippi.

02 giugno 2006

Il nuovo parterre des rois

Stavo guardando, per la prima volta nella mia vita, la parata del 2 giugno, ed anche con una certa curiosità per il nuovo parterre des rois, presidente della Repubblica in testa. Confesso che mi ha fatto impressione vedere Napolitano accanto a Bertinotti, e poi Marini e Prodi. Ecco il vertice dello Stato: un ex comunista, un comunista, due ex democristiani, e tutti e quattro schierati nel centrosinistra, nessuno in rappresentanza dell'Italia "laica" e del centrodestra.
E' l'immagine di un sopruso, di un tradimento del corpo elettorale, della storia d'Italia. Ma si rendono conto questi di cosa hanno combinato?

25 maggio 2006

TocqueVille, la Città dei Liberi

TocqueVille è un aggregatore di blog liberali, conservatori, neoconservatori, riformatori e moderati, che, ispirandosi all'insegnamento del grande Alexis de Tocqueville, vuole diffondere il verbo della libertà. In Italia questa realtà rappresenta un tentativo inedito di incoraggiare e sviluppare una cultura politica più aperta, moderna, anti-ideologica, attenta a quanto si muove anche al di fuori del nostro Paese, soprattutto negli Stati Uniti, ma non solo.
Un amico blogger ha contribuito a farla nascere, poi ne era uscito per coerenza con la propria appartenenza culturale alla sinistra (perché "la Città dei Liberi" si stava caratterizzando come "la Right Nation italiana") e adesso vi è rientrato ritenendo che, alla luce del malinconico spettacolo offerto da una sinistra incapace di imboccare in maniera definitiva la via del liberal-socialismo e di liberarsi delle ipoteche di un estremismo più vitale che mai, questo fosse un passo quasi obbligato per un blogger che crede nella libertà. Beh, il suo percorso mi ricorda talmente da vicino il mio, il suo conflitto interiore è così simile a quello che ho vissuto io, che ad un certo punto mi sono deciso a varcare anch'io la soglia di questa Città.
Il mio è un blog molto part-time, ma una testimonianza la puòdare lo stesso. Ed io l'ho data iscrivendo Foglie d'Erba a TocqueVille.

Andate a raccontarlo a qualcun altro ...

Da Addis Abeba arriva una notizia piuttosto strana: un ristoratore cristiano sarebbe stato sorpreso nel suo negozio ad usare le pagine del Corano per incartare gli acquisti (cibo) dei clienti, e per pulirsi le mani. “Ovviamente” sarebbe questa la causa delle violente manifestazioni anticristiane al grido di «Allah è grande» durate ore e con lanci di pietre che si sono tenute ieri a Jijiga, cittadina nell'est dell'Etiopia, un'area ad ampia maggioranza musulmana ai confini con la Somalia. Ne riferisce Il Giornale. E naturalmente nessuno crede che le manifestazioni siano la conseguenza del gesto blasfemo del negoziante, per la semplice ragione che nessuno crede che il gesto in questione si sia mai verificato.

16 maggio 2006

Partito democratico

Con l'incarico a Romano Prodi, si risolverà magari il problema della lista, ma quello del Partito democratico mi sa di no. Scettico, ad esempio, è Michele Salvati nell'editoriale di oggi. Proprio come Paolo Franchi ieri. Si sta diffondendo un certo pessimismo, indubbiamente.

10 maggio 2006

Segni del declino

Ora che i Democratici di Sinistra sono sul punto di mettere un loro uomo sul colle del Quirinale quasi tutti, nel Palazzo, potranno chiamarsi soddisfatti: i ds, ovviamente, i dl che hanno piazzato Marini al Senato, i rifondaroli che hanno sistemato Bertinotti (togliendoselo dai piedi e sostituendolo con Giordano che è un po’ più al loro livello), i forzisti (che finalmente potranno gridare al regime) quelli di AN (che con un ex comunista sul colle si possono sentire sdoganati definitivamente anche loro perché si sa che una mano lava l’altra). Dicevo “quasi tutti” perché quelli di Casini, ad esempio, lo voterebbero pure Napolitano, ma non sarebbero contenti lo stesso perché non hanno niente da guadagnarci. I dalemiani poi, per ovvie ragioni salti mortali non ne faranno. Il bilancio, però, è ottimo.

Fuori dal Palazzo, invece, le cose potrebbero stare diversamente. Napolitano è una scelta talmente malinconica che quasi mi viene da piangere. Che sia politicamente quello che è conta molto meno, penso, che ciò che lui è di per sé, come figura. Allontanerà la gente dalle istituzioni perché non ha comunicativa, né simpatia, né bonomia, né ispira il rispetto di una cultura chiaramente superiore. Una scelta scialba. E’ incredibile la pochezza diessina: dei due nomi che hanno fatto neanche uno è neppure lontanamente adeguato. Quasi quasi persino Gianni Letta è meglio. E’ il segno del declino inarrestabile di quello che fu, nel bene e nel male, un grande partito.

04 maggio 2006

Il 5 maggio di Tony Blair

Sul Riformista di oggi i guai di Tony Blair nel giorno delle elezioni locali. Al centro il tema dell'immigrazione e le poco commendevoli performances del ministro degli Interni Charles Clarke. L'articolo del Riformista è accessibile solo agli abbonati, pertanto lo copio/incollo qui di seguito.

REQUIEM. CLARKE E GLI ALTRI, TRAVOLTI DALL’IMMIGRAZIONE
Blair attende il suo cinque maggio
DI MAURO BOTTARELLI

Londra. I giornali del mattino, dal Daily Mail al Times fino al Sun, non lasciavano scampo a Charles Clarke: tutti sparavano in prima pagina la notizia in base alla quale Mustafa Jamma, il killer somalo della poliziotta e madre di tre figli, Sharon Beshenivsky, uccisa lo scorso novembre doveva essere espulso dalla Gran Bretagna nove mesi prima di compiere l’omicidio. Come dire: se l’Home Office avesse fatto il suo dovere, questa donna sarebbe ancora viva. Un macigno sulle spalle già stanche e curve del suo titolare che, alle 11.30 del mattino, ha preso la parola ai Commons per un intervento reso necessario e improrogabile dai dettagli sempre più compromettenti che stanno facendo gonfiare a dismisura lo scandalo, dalle richieste di dimissioni sempre più pressanti di Tory e liberaldemocratici e dall’imminenza del voto amministrativo di oggi, un disastro annunciato che potrebbe - con una bassa affluenza alle urne - trasformarsi addirittura in tragedia politica per il Labour. Il ministro si è difeso attaccando. O, meglio, annunciando il reperimento e l’espulsione di 70 dei delinquenti ingiustamente rilasciati e proponendo misure più rigide riguardo i criminali stranieri che comportino l’immediata espulsione per chiunque si sia macchiato di un crimine che preveda la reclusione. Richiesta immediatamente ribadita da Tony Blair nel corso del question time seguito all’intervento di Charles Clarke, durante il quale il primo ministro è stato frontalmente attaccato da David Cameron, secondo cui «la gente sta pagando il prezzo dell’arrogante attaccamento al potere di un leader che ha completamente perso il controllo della situazione». Per Tony Blair, invece, Clarke sta cercando di risolvere una situazione grave dovuta ad «un sistema che non ha funzionato per anni e che ora invece funziona. Penso che sia giusto che continui a farlo poiché è completamente sbagliato affermare che questo problema sia stato creato o sia iniziato sotto questo ministro dell’Interno». Sprezzante la replica di David Cameron: «Chi ascolta questa risposta penserà seriamente che sia patetica». Uno scaricabarile? Non proprio, visto che comunque il Labour governa da nove anni e soprattutto che questa situazione non si presenta per la prima volta all’attenzione della politica. Il problema rappresentato dallo scandalo, anche in previsione del voto, è che questo fallimento - oltre ad andare a toccare un nervo scoperto della società britannica - si pone come la prova lampante della recidività del governo laburista in materia. Nel febbraio 2004, infatti, un’inchiesta del Sunday Times resa possibile dalle delazioni del funzionario dell’Home Office, Steve Moxon, portò alla luce un’incredibile serie di incompetenze, insabbiamenti ed abusi d’ufficio per quanto riguardava i flussi migratori e il rilascio di permessi di soggiorno, la cosiddetta managed migration. In quel caso lo scandalo costò immediatamente il posto al titolare del ministero, Beverly Hughes ma anche allo stesso Moxon che fu licenziato in tronco l’8 marzo 2004: il quale, però, si rifece con i diritti d’autore del suo libro, The great immigration scandal. A gioire per questa pressione sul governo sono chiaramente i partiti che maggiormente spingono sull’acceleratore della lotta all’immigrazione clandestina e della sicurezza, ovvero i conservatori e il British national party. Quest’ultimo, stando alle ultime rilevazioni, attende soltanto il dato dell’affluenza per poter cantare vittoria: più il turnout è basso, più il partito xenofobo di Nick Griffin può avvicinarsi al traguardo storico di aggiungere 70 consiglieri ai 26 su cui può già contare. La tensione razziale, in questi giorni, è alle stelle. Colpa dello scandalo che ha investito l’Home Office, ovviamente, ma anche del clima di esasperazione che si respira in molte aree industriali della cintura londinese e della Midlands. E’ dell’altro giorno la notizia del fermo di un 33enne bianco ritenuto responsabile di tre attentati incendiari in altrettanti negozi di alimentari gestiti da pachistani nell’East End londinese, uno dei quali è costato la vita a Khizar Hayat, bruciato vivo nel suo bazar di Kennington. Il voto di oggi, quindi, si pone più che mai come un referendum sull’azione di governo più che come una tornata prettamente amministrativa e locale: «Se gli elettori sceglieranno di soprassedere a questa spettacolare incompetenza, Blair potrà dirsi fortunato», sentenziava ieri impietoso il Times. Ancora ieri i sondaggi vedevano i Conservatori di David Cameron avanti 35 a 32. La mattina di domani potrebbe davvero essere degna della sua nomea per Tony Blair: 5 maggio.

02 maggio 2006

Il Manifesto di Euston

Ho firmato il "Manifesto di Euston" e consiglio vivamente i lettori di questo blog di fare altrettanto. Il Foglio ha pubblicato qualche giorno fa una traduzione in italiano e Christian Rocca l'ha copiata/incollata sul suo blog. Per praticità la ripubblico anche qui per intero. Su Wind Rose Hotel c'è il post dal quale ho appreso del Manifesto. Tra l'altro esprime un punto di vista che sostanzialmente coincide con il mio (ma non è la prima volta con WRH). Interessante anche la citazione di un articolo di Christopher Hitchens, che come sempre ha il potere di mettere in azione le cellule cerebrali del lettore.
Ecco il Manifesto:

Il Manifesto di Euston
Pubblicato da IL FOGLIO del 26 aprile 2006


A. Presentazione
Siamo democratici e progressisti e proponiamo un nuovo riallineamento politico. Molti di noi appartengono alla sinistra, ma i principi qui esposti non intendono escludere altre tradizioni politiche; vogliamo, piuttosto, andare oltre la sinistra socialista e accogliere liberali egalitaristi ed altri che si impegnano per la democrazia senza ambiguità ed incertezze.
Intendiamo infatti ridefinire il pensiero progressista distinguendo nettamente tra la sinistra rimasta fedele ai propri valori più autentici e quella che invece si è ultimamente mostrata troppo arrendevole nel difendere proprio quei valori. Si tratta dunque di fare causa comune con i democratici autentici, siano essi socialisti o no. Questa iniziativa è nata e ha destato l’interesse maggiore su Internet, soprattutto nella “blogosfera”.
Abbiamo tuttavia l’impressione che i media tradizionali, come gli altri luoghi della politica contemporanea, stiano sottostimando il potenziale di questa proposta. Le affermazioni di principio qui contenute rappresentano solo un inizio. Infatti con questi contenuti avviamo un sito Internet che sarà al servizio della corrente di opinione che speriamo di rappresentare e dei diversi blog o altri siti web che condividono questo invito a ridefinire la politica progressista.

B. Principi generali
1. Per la democrazia
Noi siamo assolutamente vincolati e impegnati a difendere le norme, le procedure e le istituzioni democratiche – libertà di opinione e riunione, libere elezioni, separazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, e separazione tra stato e religione. Noi attribuiamo grande valore alle consuetudini e alle istituzioni, foriere di buon governo, di quei paesi nei quali si sono radicate le democrazie liberali e pluraliste.

2. Non giustifichiamo le tirannie
Rifiutiamo qualsiasi giustificazione o indulgenza per i regimi reazionari e per i movimenti nemici della democrazia – regimi che opprimono i propri cittadini e movimenti che aspirano a farlo. Ci distinguiamo nettamente da quegli elementi della sinistra disposti ad offrire attenuanti e comprensione a forze politiche di quella sorta.

3. Diritti umani per tutti
Siamo convinti che i diritti umani fondamentali contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo siano esattamente e giustamente universali. Le violazioni di tali diritti devono essere egualmente condannate, chiunque ne sia responsabile e indipendentemente dal contesto culturale nel quale sono commesse. Rifiutiamo i doppi standard dei quali si serve un’opinione autodefinita progressista, che condanna molto più duramente le violazioni (meno importanti, anche se vere) perpetrate dai governi occidentali che non quelle, palesemente molto più gravi, commesse altrove. Rifiutiamo inoltre il punto di vista (relativismo culturale) secondo il quale in determinate nazioni o popolazioni i diritti umani fondamentali non sono applicabili.

4. Eguaglianza
Siamo favorevoli alle politiche di tipo egalitarista. Auspichiamo cambiamenti nei rapporti tra i sessi (finché non sarà raggiunta una completa uguaglianza di genere), tra le diverse comunità etniche, tra quelle di diversa affiliazione religiosa e quelle di nessuna religione, e tra le persone di diverso orientamento sessuale – e auspichiamo in generale una più vasta eguaglianza sociale ed economica. Lasciamo aperto, poiché tra noi esistono in proposito punti di vista diversi, il problema di quali forme economiche tale eguaglianza debba assumere; in ogni caso, affermiamo gli interessi dei lavoratori e il loro diritto di organizzarsi per difendere tali interessi. I sindacati democratici sono organizzazioni essenziali per la difesa degli interessi dei lavoratori e costituiscono una forza fondamentale per la promozione dei diritti umani, della democrazia e dell’internazionalismo egalitario. I diritti del lavoro sono diritti umani. L’adozione in tutto il mondo delle Convenzioni della Organizzazione Mondiale del Lavoro – oggi ignorate da molti governi in ogni parte del mondo – è per noi una priorità. Siamo impegnati nella difesa dei diritti dei bambini e nella lotta alla schiavitù sessuale e a ogni forma di maltrattamento istituzionalizzato.

5. Sviluppo economico per la libertà
Siamo favorevoli allo sviluppo economico mondiale come fattore di libertà e lottiamo contro l’oppressione economica strutturale e il degrado ambientale. L’attuale espansione dei mercati globali e del libero scambio non deve servire i ristretti interessi di una piccola élite di manager nel mondo industrializzato e dei loro soci nei paesi in via di sviluppo. I benefici dello sviluppo su vasta scala attraverso l’espansione del commercio mondiale devono essere quanto più possibile diffusi, affinché soddisfino gli interessi sociali ed economici dei lavoratori, dei contadini e dei consumatori in ogni paese. Globalizzazione deve voler dire integrazione sociale e impegno verso la giustizia sociale in tutto il mondo. Per raggiungere questi obiettivi, siamo a favore di una riforma radicale dei principali organismi di governo economico mondiale (Organizzazione Mondiale del Commercio, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale) e sosteniamo il commercio equo, l’incremento degli aiuti internazionali, la cancellazione del debito e la campagna per la fine della povertà (Make Poverty History). Lo sviluppo può accrescere le aspettative di vita e la qualità della vita, alleviando i lavori pesanti e riducendo la giornata lavorativa; può portare libertà ai giovani, nuove opportunità di vita agli adulti e sicurezza agli anziani. Amplia gli orizzonti culturali e le possibilità di viaggiare e aiuta a rendere amici gli estranei. Lo sviluppo globale deve essere, inoltre, perseguito in modo compatibile con quanto è sostenibile dall’ambiente naturale.

6. No all’anti-americanismo
Rifiutiamo senza eccezioni l’anti-americanismo che oggi avvelena tanta parte del pensiero di sinistra (e settori di quello di destra). Non diciamo che gli Stati Uniti debbano essere considerati una società modello; siamo coscienti dei suoi problemi e dei suoi limiti, che sono in qualche misura comuni a gran parte dei paesi sviluppati. Gli Stati Uniti sono un grande paese e una grande nazione, sede di una democrazia forte, con tradizioni illustri e durature conquiste politiche e sociali. Le sue popolazioni hanno prodotto una cultura palpitante che è fonte di godimento, ispirazione ed emulazione per miliardi di persone. La politica estera degli Stati Uniti si è spesso contrapposta a movimenti e governi progressisti e ha appoggiato quelli reazionari e autoritari; tuttavia, questo non giustifica pregiudizi generalizzati contro quel paese o i suoi abitanti.

7. Per due popoli due stati in Palestina
Riconosciamo il diritto all’autodeterminazione sia degli israeliani sia dei palestinesi, nel contesto di una soluzione che preveda due diversi stati. Non potrà esservi soluzione ragionevole del conflitto israelo-palestinese che subordini o sopprima i legittimi diritti e interessi di una delle parti in causa.

8. Contro il razzismo
Per i liberali e per la sinistra, l’antirazzismo è una verità assiomatica. Ci opponiamo a qualsiasi forma di pregiudizio o comportamento razzista: il razzismo anti-immigranti dell’estrema destra, il razzismo tribale e interetnico, il razzismo contro le persone provenienti dagli stati islamici, o i loro discendenti, e in particolare il razzismo che può essere nascosto sotto le vesti della guerra al terrorismo. Tuttavia, l’ultimo riaffiorare di una forma di razzismo molto antica, l’antisemitismo, non è ancora sufficientemente riconosciuto dagli ambienti di sinistra. Alcuni arrivano a strumentalizzare le legittime rivendicazioni dei palestinesi sotto occupazione israeliana e nascondono i propri pregiudizi contro gli ebrei dietro la formula dell’antisionismo. Noi ci opponiamo, come è ovvio, anche a questa forma di razzismo.
9. Uniti contro il terrorismo
Noi avversiamo ogni forma di terrorismo. Prendere deliberatamente di mira popolazioni civili è un crimine, per il diritto internazionale e per tutti i codici di guerra, e non può essere giustificato dalla tesi secondo la quale ciò viene fatto per una causa giusta. Il terrorismo ispirato dall’ideologia islamista oggi è molto diffuso e minaccia i valori democratici, la vita e la libertà della gente in molti paesi. Questo non deve giustificare i pregiudizi contro gli islamici, che ne sono le vittime principali e tra i quali si trovano alcuni dei più coraggiosi oppositori del terrorismo. Ma il terrorismo è una minaccia da combattere, senza scusanti.

10. Per un nuovo internazionalismo
Siamo a favore di una politica internazionalista e di una riforma del diritto internazionale – nell’interesse della democratizzazione globale e dello sviluppo globale. L’intervento umanitario, quando si rende necessario, non vuol dire ignorare la sovranità ma significa porla, più correttamente, nella comunità dei popoli. Se minimamente uno stato protegge la vita quotidiana dei propri cittadini (senza torturare, uccidere o massacrare la popolazione, e soddisfacendone i bisogni essenziali per la sopravvivenza), allora la sua sovranità va rispettata. Ma quando uno stato viola atrocemente la vita quotidiana dei cittadini, ha rinunciato alla propria sovranità e la comunità internazionale ha il dovere di intervenire e prestare soccorso. Quando si arriva alla disumanità, vige il dovere di proteggerne le vittime.

11. Apertura critica alle idee
Traendo lezione dalla disastrosa vicenda degli apologeti di sinistra dei crimini dello stalinismo e del maoismo, come da quella più recente ma dello stesso tenore (alcune delle reazioni al crimine dell’11 settembre, la comprensione per il terrorismo suicida, le indegne alleanze, all’interno del movimento contro la guerra, con teocrati illiberali), noi rifiutiamo l’idea che non debba esserci opposizione “da sinistra”. Nello stesso modo, rifiutiamo di pensare che non possano esservi aperture verso idee e persone “a destra”. La sinistra che si allea a forze antidemocratiche, o che le giustifica, deve essere condannata chiaramente e severamente. D’altro canto, prestiamo attenzione alle voci e alle idee liberali o conservatrici che possono contribuire a rafforzare le norme e le pratiche democratiche e le battaglie per il progresso dell’umanità.

12. Per il rispetto della verità storica
Richiamandoci alle origini umanistiche del movimento progressista, sottolineiamo il dovere, per ogni vero democratico, di mostrare rispetto per la verità storica. Non solo fascisti, negatori dell’Olocausto e simili hanno provato a offuscare i fatti storici: una delle principali tragedie per la sinistra è che proprio su questo tema la propria reputazione è stata gravemente compromessa dal movimento comunista internazionale, e molti ancora non hanno imparato la lezione. Onestà intellettuale e politica, sincerità e chiarezza devono essere per noi un dovere.

13. Libertà di pensiero
Noi condividiamo il concetto liberale di libertà di pensiero. Oggi è più che mai necessario affermare che, salvo i casi di diffamazione, calunnia o istigazione alla violenza, tutti devono sentirsi liberi di criticare qualsiasi idea o concezione del mondo, compresa la religione (specifiche religioni o la religione in generale). Rispettare gli altri non significa non potere dare giudizi sulle loro convinzioni, se non le condividiamo.

14. Creatività open source
Nel contesto del libero scambio delle idee e per incoraggiare la creatività di gruppo, siamo favorevoli allo sviluppo aperto e accessibile di software e di altre opere di ingegno, e contrari al brevetto di geni, algoritmi e fatti naturali. Ci opponiamo all’estensione retroattiva delle leggi sulla proprietà intellettuale, che avvantaggiano finanziariamente le imprese che detengono i copyright. Il modello open source è collettivista e competitivo, collaborativo e meritocratico. Non è un ideale teorico ma una realtà sperimentata da decenni, che ha prodotto opere fruibili da tutti, valide e durature. Si può addirittura affermare che l’ideale di collegialità della comunità scientifica, che ha portato alla collaborazione open source, è stata per secoli alla base del progresso umano.

15. Un’eredità storica preziosa
Rifiutiamo la paura della modernità, la paura della libertà, l’irrazionalità, la sottomissione delle donne; e riaffermiamo le idee che hanno ispirato le parole d’ordine delle rivoluzioni democratiche del Settecento: libertà, eguaglianza e solidarietà; diritti umani; la ricerca della felicità. Queste idee illuminanti sono diventate parte della nostra eredità comune grazie alle trasformazioni socialdemocratiche, egalitarie, femministe e anticoloniali dell’Ottocento e Novecento – attraverso la ricerca della giustizia sociale, le prestazioni dello stato sociale, la fratellanza e sorellanza tra tutti gli uomini e le donne. Nessuno deve essere escluso, nessuno deve essere dimenticato. Noi ci schieriamo a favore di questi valori, ma non siamo fanatici. Noi abbracciamo anche i valori della analisi critica, del dialogo aperto, del dubbio creativo, della cautela di giudizio; siamo inoltre coscienti delle difficoltà e degli ostacoli oggettivi. Siamo perciò contrari a qualunque pretesa di verità totale, indiscussa o indiscutibile.

C. Alcune precisazioni
Difendiamo le democrazie liberali e pluraliste contro tutti coloro che ne sminuiscono le differenze rispetto ai regimi totalitari e tirannici. Ma tali democrazie hanno limiti e punti deboli. Le battaglie per lo sviluppo di istituzioni e procedure più democratiche, per dare forza a tutti coloro che non hanno potere o possibilità di far sentire la propria voce o sono privi di risorse politiche, sono componenti essenziali del programma della sinistra. I fondamenti sociali ed economici sui quali sono nate le democrazie liberali, sono segnati da profonde disuguaglianze di ricchezza e di reddito e da persistenti ingiustificati privilegi. Le disuguaglianze nel mondo gridano scandalo alla coscienza morale dell’umanità. Milioni di persone vivono in condizioni di terribile povertà e migliaia ogni giorno – soprattutto bambini – muoiono per malattie che potrebbero essere evitate. Le disuguaglianze tra individui e tra paesi determinano arbitrariamente le condizioni di vita delle persone.
Questa situazione è un atto d’accusa permanente alla comunità internazionale. La sinistra, coerentemente con le proprie tradizioni, lotta per la giustizia e per una vita dignitosa per tutti. Coerentemente con queste tradizioni, dobbiamo anche combattere contro le potenti forze della tirannia totalitaria che stanno nuovamente avanzando. Queste due battaglie devono essere combattute simultaneamente. L’una non può essere sacrificata a beneficio dell’altra.
Sconfessiamo quel modo di pensare secondo il quale i fatti dell’11 settembre 2001 sono un risultato meritato o comunque prevedibile, nel contesto della legittima opposizione alla politica estera americana. In realtà, quel giorno è stato perpetrato un assassinio di massa, mosso da ripugnanti convinzioni fondamentaliste e assolutamente non riscattabile in alcun modo. Nessuna formula ambigua può offuscare questa verità.
I promotori di questa dichiarazione hanno punti di vista diversi sull’intervento militare in Iraq, alcuni favorevoli e altri contrari. Riconosciamo le profonde ma comprensibili diversità di opinioni sulla opportunità di quell’intervento, sul modo in cui è stato realizzato, sulla gestione (o mancanza di gestione) delle sue conseguenze e sulle prospettive di un’effettiva trasformazione democratica in Iraq; siamo tuttavia uniti nel giudicare il regime baathista come reazionario, fascista e assassino, e dichiariamo che la sua caduta è stata una liberazione per il popolo iracheno. Siamo uniti anche nel considerare che, dal giorno in cui essa è avvenuta, l’impegno prioritario della sinistra avrebbe dovuto essere la lotta per istituire in Iraq un sistema politico democratico, per ricostruire le infrastrutture del paese e per dare vita in Iraq, dopo decenni di brutale oppressione, a un tipo di vita normale per i cittadini dei paesi democratici – invece di insistere in sterili discussioni sull’opportunità o meno dell’intervento militare.
Per questo motivo ci contrapponiamo non solo a quelli che a sinistra hanno attivamente dato sostegno alle bande di teppisti jihadisti e baathisti della cosiddetta resistenza irachena, ma anche a coloro che si proclamavano equidistanti tra queste forze e quelle che tentavano di portare il paese ad una nuova vita democratica. Non abbiamo nulla a che fare, inoltre, con chi sostiene solo a parole questo tentativo di democratizzazione, impegnando invece gran parte delle proprie energie nella critica agli avversari politici (considerati responsabili di tutti i problemi dell’Iraq) e tacendo invece sugli ignobili comportamenti delle truppe “ribelli” irachene. I molti che, da sinistra, si opponevano al cambiamento di regime in Iraq ed erano incapaci di comprendere i motivi di chi era invece favorevole, sciorinando anatemi e scomuniche e più recentemente pretendendo scuse e ravvedimenti, hanno in questo modo rinnegato tutti i valori democratici che affermano di voler difendere.
Gli atti di vandalismo contro le sinagoghe e i cimiteri ebraici e gli attacchi fisici agli ebrei sono in aumento in Europa. “L’antisionismo” è cresciuto al punto che organizzazioni considerate di sinistra sono disposte a dar voce ad esponenti apertamente antisemiti o ad allearsi a gruppi antisemiti. Ci sono individui, anche tra i ceti colti e benestanti, che non si vergognano a dire che la guerra in Iraq è stata combattuta in nome e per conto di interessi ebraici, o ad alludere più sottilmente alla nefasta influenza degli ebrei nella politica internazionale o interna – opinioni che per più di 50 anni dopo l’Olocausto nessuno avrebbe osato sostenere senza screditarsi di fronte al mondo. Noi contrastiamo tutti i vaneggiamenti di questo tipo.
La violazione dei minimi diritti umani ad Abu Ghraib, a Guantanamo o in altri casi simili deve essere assolutamente condannata per ciò che è: un allontanamento dai principi universali che sono stati storicamente acquisiti e assicurati nei paesi democratici, in particolare negli Stati Uniti d’America. Ma noi rifiutiamo i doppi standard utilizzati da molte persone di sinistra che considerano gravissime le violazioni dei diritti umani compiuti dai paesi democratici, mentre non si odono condannare altre vicende ben più gravi. Questa tendenza è arrivata al punto che alcuni portavoce di Amnesty International, organizzazione molto rispettata nel mondo grazie al decennale lavoro svolto, hanno paragonato Guantanamo ai Gulag sovietici o sostenuto che le misure adottate dagli Stati Uniti e da altri paesi liberal-democratici nella guerra al terrorismo costituiscono il più grave attacco ai diritti umani mai visto negli ultimi 50 anni; quel che è peggio, esponenti della sinistra hanno plaudito quei discorsi.

D. Conclusioni
E’ di vitale importanza per il futuro della politica progressista che oggi le persone di opinione liberale, egalitarista e internazionalista si pronuncino con chiarezza. Dobbiamo prendere posizione contro chi ritiene che l’intero programma progressista e democratico debba essere subordinato a un semplicistico e totalizzante “antiimperialismo” oppure alla lotta contro l’attuale governo americano. Invece, i contenuti e gli obiettivi veri di questo programma – i valori della democrazia e dei diritti umani, la guerra ai privilegi immotivati ed ai poteri arbitrari, la solidarietà con chi combatte la tirannia e l’oppressione – sono ciò che contraddistingue e sempre contraddistinguerà una sinistra alla quale valga la pena di appartenere.
The Euston Group
(traduzione di Mario Ristoratore, Ph.D.
ex Fulbright Scholar, Brandeis University)

15 aprile 2006

Tra l'altro, auguri!

Se quel che dice Calderoli ha un fondamento giuridico è inutile fare tante storie: la parola passi ai giudici e ai giuristi, e facciamola finita.
Comunque Buona Pasqua a tutti.

06 aprile 2006

Campagna deludente

Su La Stampa di oggi. Una cosa semplice che dice tutto quel che avrei potuto dire io sulla campagna elettorale. L’ha scritta Lietta Tornabuoni:

Soldi, soldi, soldi. In questa campagna elettorale non s'è parlato d'altro, come se il Paese fosse un mercato sterminato, un luogo di baratto dove cedere il voto per una manciata di noccioline (tu mi dai il voto e io ti levo l'Ici, tu mi eleggi e io dò 200 euro mensili per tre anni ai tuoi bambini, percentuali, tagli e cunei fiscali, coperture mancanti eccetera). Bugie a parte, è naturale: i soldi sono l'elemento centrale, nell'Italia squattrinata. Ci si ritrova peggio che nei versi dell'«Internazionale», il canto storico dei lavoratori: «Noi non siamo più nell'officina / sotto terra, nei campi, in mar / la plebe sempre all'opra china / senza ideali in cui sperar». Gli ideali neppure sono stati nominati, il che dà un certo senso di angustia, di aridità.

Per quello che riguarda i blog, non ne ho potuto visitare molti ultimamente, tranne quei quattro o cinque che leggo tutte le volte che mi collego a Internet. Il solito Windrose, ad esempio, ha trovato il modo di dire finalmente quel che pensa di Prodi (pardon, si limita a parlare di una sua “suggestione”). Ed io non posso che sottoscrivere. Certo che suggestioni così non si riscontrano tutti i giorni. Un post, come al solito, superlativo, praticamente perfetto.

15 marzo 2006

Oliver Kamm sulla guerra (e code polemiche)

Un intervento su The Guardian di Oliver Kamm che vale la pena di leggere: "We were right to invade Iraq". Il medesimo Oliver Kamm riproduce sul suo blog l'articolo e la lettera ipercritica e insultante di un lettore molto arrabbiato con lui, presentandola con humour britannico. Nella missiva si dice che Il Guardian, dopo aver pubblicato l'articolo, ha perso un lettore ("Thanks to you the Guardian has just lost a reader of more than 18-years continued support. "). Non mi sembra che il quotidiano inglese abbia perso molto.

03 marzo 2006

Bye Bye Mr Diliberto

Sul famigerato caso Diliberto (sulle oscenità che ha avuto il coraggio di dire), di cui si discute oramai dappetutto: giornali, radio, tv, blog, al bar, sul lavoro e persino per strada, vorrei dire la mia molto sinteticamente. Innanzitutto, quel tipo è riuscito a far parlare di sé tutta l'Italia, e questo deve sembrargli un risultato strepitoso (e forse lo è, in termini elettorali, ovviamente). Oltretutto ha detto solo quel che pensa, da sempre, e non soltanto lui: c'è una buon terzo dell'Unione che la pensa allo stesso modo. Quindi non lo si può accusare di nulla, a meno che non si voglia imporre agli altri come e cosa pensare o non pensare.
Quindi lui è a posto.
Il problema, insomma, non è lui: siamo noi, noi che non la pensiamo come lui, anzi che la pensiamo in maniera opposta. Noi che, semplicemente, come ha scritto Il Riformista, non possiamo stare insieme a lui in nessun posto, tanto meno nell'Unione. Ora, a Diliberto questa situazione in cui lui dice quel che pensa e nessuno gli dice niente, può far comodo, fa effettivamente comodo, dal momento che non può andare alle elezioini da solo. Ma al resto dell'Unione conviene?
Io, comunque, la penso allo stesso modo di WRH: quelli non li voto manco se m'ammazzano, e se mi fanno girare le scatole finisce che voto per quegli altri: sì, per il centrodestra, per dare una bella lezione a quelli come Prodi, D'Alema, Fassino e Rutelli, che fanno finta di niente. Io no. Non faccio finta di nulla. Che Diliberto se ne vada all'inferno, e insieme a lui tutti coloro che usurpano il nome della sinistra facendoci credere che Stalin, Che Guevara o Fidel Castro sono la nostra guida. Sarà magari la loro. Non la mia. Io sto con Tony Blair.

Alla ricerca dell'arca perduta

Ennio Caretto si occupa sul Corriere della Sera di oggi di una questione molto singolare:

Esistevano davvero i nemici tedeschi di Indiana Jones: Himmler li spedì a convalidare le fantasie del Führer
I predatori nazisti dell’arca perduta

WASHINGTON - Nel film I predatori dell’arca perduta , ambientato negli anni Trenta, due agenti segreti americani informano Indiana Jones che Hitler «ha l’ossessione dell’occulto e sta mandando archeologi in giro per il mondo a caccia di antichità religiose». Finzione cinematografica? No, realtà, come spiega The Master Pl an , uno straordinario libro di Heather Pringle, la storica canadese autrice del bestseller del 2001 The Mummy Congre ss (tradotto in italiano nel 2002 con il titolo I segreti della mummie , Piemme, pagine 383, 18,90). Senza nominarla, precisa la Pringle, il film si riferisce all’organizzazione Ahnenerbe («Eredità ancestrale»), fondata nel 1935 da Heinrich Himmler, capo delle SS e alter ego del Führer, col compito di dimostrare che «la civiltà umana è esclusivamente un prodotto ariano», come Hitler aveva scritto in Mein Kampf . L’Ahnenerbe fu il braccio accademico delle SS, narra la storica, ispirato alla dottrina della superiorità razziale, un prestigioso serbatoio di cervelli che nel 1939, all’apice dell’attività, raccolse 137 studiosi e 82 tecnici. Ma che segnalò anche al nazismo gli «impuri», ossia agli ebrei, fornendogli «la giustificazione scientifica» dell’Olocausto. I predatori dell’arca perduta non è l’unico film che si rifaccia all’Ahnenerbe. Nelle avventure di James Bond, il quartier generale del mortale nemico dell’agente 007, Ernst Stavros Blofeld, è il castello di Mittersill, dove l’Ahnenerbe situò il Museo degli scheletri di 86 ebrei - uomini, donne e bambini - su cui aveva prima condotto atroci esperimenti. E nel film Sette anni in Tibet , l’attore Brad Pitt riveste i panni di un emissario d’Ahnenerbe, lo scalatore Heinrich Harrer, deceduto il 7 gennaio scorso, intrappolato nel Paese asiatico dalla seconda guerra mondiale. Ma sono cenni fugaci, che non gettano luce sull’organizzazione. The Master Plan , pubblicato negli Stati Uniti dall’editore Hyperion, ne svela invece il ruolo cruciale in quella che doveva essere la costruzione dell’impero ariano, il più fulgido della storia, e nell’eliminazione dei semiti. Himmler, osserva la Pringle, era certo che la razza suprema avesse dominato il mondo prima delle glaciazioni e ogni continente ne conservasse le prove irrefutabili. L’Ahnenerbe doveva scoprirle e consegnarle al Führer. A spingere la storica a interessarsi dell’istituto, su cui ha rintracciato migliaia di documenti, fu il lavoro per The Mummy Congre ss, un libro sui millenari resti umani nelle cave nordiche. Himmler aveva una teoria in merito: si trattava di individui uccisi o sacrificati per omosessualità dagli antenati germanici (i nazisti rinchiusero poi quasi 15 mila gay, segnalati da triangoli rosa, nei campi di sterminio). La Pringle fece una ricerca sulla passione del padre delle SS per la preistoria e arrivò alla Ahnenerbe. Ne rimase, ammette, affascinata e sconvolta. Alla sua fondazione nel 1935, riferisce, Himmler vi prepose come direttore operativo Wolfram Sievers, membro delle SS, e come presidente Hermann Wirth, archeologo che aveva scoperto «artefatti ariani» nei Paesi scandinavi, a cui subentrò due anni dopo il collega Walther Wust. Il merito di Wirth: aveva elaborato una dottrina ad hoc : l’antica Atlantide era stata il primo impero tedesco, andava dall’Islanda alle Azzorre e le isole Canarie e di Capoverde ne erano le ultime vestigia. Secondo Hitler, la razza ariana era rifiorita secoli più tardi in Grecia e in Italia, «il terreno più favorevole». L’Ahnenerbe si prefisse di dimostrarlo. Nel 1937, inviò in Val Camonica l’archeologo Franz Altheim e la sua amante, la fotografa Erika Trautmann, la protetta di un altro gerarca nazista, Hermann Göring. I due tornarono con tracce di una presenza teutonica simili a quelle reperite da Wirth in Scandinavia, «a conferma» che l’antica Roma era un derivato degli ariani. Da quel momento, le spedizioni di Ahnenerbe si moltiplicarono e i suoi studiosi, con funzioni anche di spionaggio, si spinsero in Medio Oriente, in Asia centrale, persino in America Latina. La coppia Altheim-Trautmann esplorò la Dalmazia, la Romania, la Siria e l’Iraq, dove accertò che «i beduini considerano Hitler e Mussolini come divinità». Il Führer si persuase che l’impero tedesco - non romano - si fosse esteso a Oriente fino all’Asia centrale e a Occidente fino alla Bolivia. E concepì il progetto di ripristinarlo con una massiccia emigrazione. Per la Crimea, che voleva depurare dagli ebrei, rileva la Pringle, Hitler scelse gli alto-atesini, «i goti sopravvissuti alle glaciazioni», che nel 1939, sulla scia di un accordo con Mussolini, avevano optato in maggioranza di lasciare l’Italia per la Germania. «Non ci sono difficoltà fisiche né psicologiche - proclamò -. Devono solo scendere lungo la grande arteria tedesca del Danubio». Il trapianto avrebbe dato il via alla totale colonizzazione dell’Est europeo, con gli insediamenti germanici collegati da una rete di autostrade. Ma l’avverso andamento del conflitto impedì al Führer di realizzare il suo Master Plan . La stessa sorte subì la colonizzazione della Bolivia, affidata nel 1939 dall’Ahnenerbe a un suo dirigente, Edmund Kiss. Stando a Kiss, Tiwanaku, l’antica capitale delle Ande, era stata costruita da esploratori nordici, da cui avrebbe acquisito il Dio sole e il calendario. Un retroscena che contribuisce a spiegare perché nel dopoguerra molti nazisti cercarono rifugio in America Latina. Nella mappa di Himmler, riprodotta in un’illustrazione del libro, in Asia l’impero doveva arrivare all’India, le cui sacre scritture - il Rig Veda, la più antica raccolta di inni agli dei in sanscrito - erano state attribuite dall’archeologo Walther Wust ai popoli teutonici. In tale quadro fu organizzata la spedizione in Tibet verso la città proibita di Lhasa, al comando di Ernst Schaefer e Bruno Berger, in cui vennero fotografati duemila individui e ne vennero misurati 376. Naturalmente l’esito della spedizione fu ovvio: anche gli ascendenti dei tibetani risultarono tedeschi, incluso un bambino appena individuato come il quattordicesimo Dalai Lama, quello attuale. Pochi anni dopo, nel 1943, su ordine di Wolfram Sievers, il direttore operativo dell’Ahnenerbe, Berger, partecipò a una delle peggiori efferatezze naziste: i test medici - e le torture - su 86 ebrei a Natzweiler, la loro uccisione nella camera a gas, la macerazione dei loro cadaveri e la preservazione dei loro scheletri nel Museo del castello di Mittersill. Heather Pringle mette in rilievo l’attività antisemita dell’Ahnenerbe: segnalare alle SS i gruppi «non ariani», una condanna a morte. E si chiede perché solo Sievers venne giustiziato in seguito ai processi di Norimberga, perché Berger ebbe tre anni di carcere con la condizionale, perché Schaefer e altri furono lasciati liberi, ripresero la loro carriera e spesso godettero dei tesori d’arte trafugati nelle loro esplorazioni. Con alcune eccezioni, la storica descrive i 137 studiosi e gli 82 tecnici come una congrega di razzisti, collaborazionisti, esaltati, accademici che fecero un patto con il diavolo. Il libro contiene anche una intervista dell’autrice realizzata nel 2002 con Berger, allora ancora in vita, novantunenne, in uno studio traboccante di antichità tibetane. L’ex nazista continuava a credere, commenta Heather Pringle, all’inferiorità degli ebrei, «una razza con caratteristiche mongoloidi», contestava la sentenza a suo carico, si professava vittima della politica. Soltanto quando gli chiese del Museo degli scheletri, Berger si mise sulla difensiva: «Fui intrappolato, ignoravo che sorte attendesse gli ebrei da me esaminati».

Il libro della storica canadese Heather Pringle «The Master Plan» (pagine 384, $ 24,95) è uscito negli Stati Uniti il 15 febbraio presso l’editore Hyperion di New York Il volume è uscito contemporaneamente in Canada da Penguin Canada e in Gran Bretagna da Fourth Estate L’autrice, nata nel 1952 a Edmonton, è una delle saggiste di maggior successo del Nord America su argomenti archeologici.

19 febbraio 2006

Calderoli e Rushdie

Che differenza c'è fra l’affaire Calderoli e il caso Rushdie? Se lo chiede Antonio Socci su Libero stamattina. “La domanda potrà stupire”, riconosce Socci, “riflettiamoci con la mente libera”. Per carità, riflettiamoci pure con calma e sangue freddo. L’articolo l’ho letto tutto, ma io, dopo aver letto, sono rimasto dell’idea che qualche differenza c’è: Rushdie, ad esempio, non era un ministro in carica di un governo qualsivoglia. La differenza che Wind Rose Hotel vede tra un ministro e un vignettista, un attore comico, un militante politico qualsiasi. Ora si potrebbe aggiungere: e uno scrittore di romanzi. Comunque, ecco qua il pezzo dell’articolo che Libero ha riprodotto sul suo sito web. Ce n’è abbastanza per non trovare alcuna pezza d’appoggio per la tesi dell’autore. Ma giudicate voi.

Penso, come tanti, che le trovate e i modi del ministro Calderoli siano simpatici come una rettoscopia. Insomma il tipo non mi piace per niente. Ma ciò detto mi chiedo: che differenza c'è fra la sua vicenda e il "caso Rushdie"? La domanda potrà stupire, ma riflettiamoci con la mente libera. Calderoli ha dichiarato di aver fatto fare una maglietta (ripeto: una banale maglietta), che nessuno ha ancora visto (ripeto: mai visto), dunque praticamente inesistente, dove ha fatto stampare alcune delle innocue vignette del giornale danese. È venuto giù il mondo: sia quello islamico, in Libia (con morti e feriti fatti dal regime), sia quello nostrano (intellettuali e politici in testa). Il ministro, che ha già una fatwa pendente sulla sua testa, è stato "indicato" come "maiale" in un sito che si ritiene vicino ad Al Qaeda e tutti i giornali italiani, tutti i politici e gli intellettuali l'hanno moralmente e politicamente "linciato". Salman Rushdie ha avuto il trattamento opposto. Lo scrittore anglo-indiano pubblicò nel 1989 un romanzo, "Versetti satanici" che è stato letto da un mare di persone (ripeto: letto da migliaia di persone). Il libro era obiettivamente molto ruvido verso Maometto e l'Islam, infatti suscitò le ire degli ayatollah iraniani. L'autore ne ricavò una fatwa, anni di nascondimento, tanti diritti d'autore e la notorietà mondiale. Ebbene, tutta l'intellighentsia del mondo, compresa quella progressista italiana, che non ha mai speso una parola per i due milioni di cristiani massacrati in Sudan dagli islamici, è insorta al suo fianco e da anni lo porta in trionfo come eroe e "martire" del libero pensiero. Per vedere cosa dicono di lui, da anni, basta scorrere le cronache. Il 23 maggio scorso - per esempio - Rushdie ha partecipato al IV festival mondiale delle letterature e l'assessore capitolino alla Cultura Gianni Borgna, intellettuale serio e accorto, l'ha così definito: «Rushdie è divenuto un simbolo vivente di coraggio, indipendenza di pensiero e lotta contro l'intolleranza e il fanatismo.

10 febbraio 2006

Tutta colpa di Bertinotti?

Sergio Romano, sul Corriere della Sera, spiega molto bene perché la sinistra “riformista” non può chiedere a Bertinotti di essere meno “ambivalente” sulla questione dei no global:

Non è ragionevole (…) che la sinistra riformista gli chieda di mettere ordine fra le sue truppe. Bertinotti potrebbe replicare ricordando le molte circostanze in cui i leader dei Ds, a livello nazionale o locale, hanno chiuso gli occhi di fronte alle intemperanze dei centri sociali e corteggiato i piccoli tribuni antagonisti che sono emersi dalle manifestazioni degli scorsi anni. Quante occupazioni abusive, quante interruzioni di servizi pubblici, quanti scioperi senza preavviso, quanti cortei e girotondi sono stati, se non esplicitamente giustificati, perdonati e attribuiti agli errori del governo? Se i riformisti vogliono fare a meno di Bertinotti, devono cercare di conquistare quella costola della sinistra che è da sempre la malattia infantile del progressismo italiano affrontandola con franchezza e cercando di persuaderla della bontà dei loro programmi. Se non vogliono assumersi questa responsabilità devono accettare l'ambivalenza di Bertinotti. Ma non è né logico né politicamente ragionevole chiedergli di fare ciò di cui essi non sono capaci.

Quello che scrive Wind Rose Hotel circa l'assottigliamernto delle incertezze elettorali di qualche elettore potenziale dell'Unione, per altro, mi sembra molto condivisibile.

27 gennaio 2006

Ha vinto Hamas, ma la pace è ancora possibile

Ha vinto Hamas, e la storia imprime una svolta che sembra epocale alla questione palestinese. Il dato è indubbiamente molto grave, un segnale difficilmente classificabile nell'ordine della normalità. Tuttavia non sono d'accordo con chi giudica in maniera assolutamente negativa e pessimistica il quadro che emerge da questo risultato elettorale. Si dice: la democrazia non può consistere in questo. Ma la democrazia è "anche" questo.
La democrazia èuna prassi che, comunque, paga. Paga nei tempi lunghi, però. Ad esempio, vorrei sapere come diamine faranno quelli di Hamas a gestire la situazione. Sceglieranno il realismo o la demagogia anche adesso che hanno il potere? E se sceglieranno la demagogia, cioè il caos e il congelamento del processo di pace, cosa faranno gli elettori la prossima volta? Li puniranno o li premieranno? Secondo me li puniranno. E' per questo che ritengo molto improbabile una "scelta demagogica".
In altre parole, lo confesso, sono ottimista. Sono ottimista nonostante tutto. Credo che la democrazia vincerà. Il perché lo ha spiegato piuttosto bene Christian Rocca, anche se, qua e là, forse, bisognerebbe fare qualche distinguo (ad esempio il paragone tra la Palestina e l'Europa del dopoguerra, che francamente mi sembra un po' tirato per i capelli). Interessanti e condivisibili mi sembrano anche le cose che scrive 1972. Penso che presto, comunque, sapremo come se la caveranno i vincitori.

18 gennaio 2006

Wikipedia è attendibile? Mica tanto

Nella sua “Bustina di Minerva” di questa settimana su L’Espresso, dedicata a Wikipedia e, in generale, al problema (serissimo) dell’attendibilità delle informazioni che si possono ricavare da Internet, Umberto Eco scrive cose che dovrebbero essere attentamente meditate. Personalmente condivido totalmente. Copio/incollo qui di seguito.

----

Un dibattito sta agitando il mondo di Internet ed è quello su Wikipedia. Per chi non lo sappia, si tratta di una enciclopedia in linea che viene scritta direttamente dal pubblico. Non so sino a qual punto una redazione centrale controlli i contributi che arrivano da ogni parte, ma certamente quando mi è capitato di consultarla su argomenti che conoscevo (per controllare solo una data o il titolo di un libro) l'ho sempre trovata abbastanza ben fatta e bene informata. Però l'essere aperta alla collaborazione di chiunque presenta i suoi rischi, ed è accaduto che certe persone si siano viste attribuire cose che non hanno fatto e addirittura azioni riprovevoli. Naturalmente hanno protestato e la voce è stata corretta.
Wikipedia ha anche un'altra proprietà: chiunque può correggere una voce che ritiene sbagliata. Ho fatto la prova per la voce che mi riguarda: conteneva un dato biografico impreciso, l'ho corretto e da allora la voce non contiene più quell'errore. Inoltre nel riassunto di uno dei miei libri c'era quella che ritenevo una interpretazione scorretta, dato che vi si diceva che io 'sviluppo' una certa idea di Nietzsche mentre di fatto la contesto. Ho corretto 'develops' con 'argues against', e anche questa correzione è stata accettata.
La cosa non mi tranquillizza per nulla. Chiunque potrebbe domani intervenire ancora su questa voce e attribuirmi (per gusto della beffa, per cattiveria, per stupidità) il contrario di quello che ho detto o fatto. Inoltre, dato che su Internet circola ancora un testo in cui si dice che io sarei Luther Blissett, il noto falsario (e anche dopo anni che gli autori di quelle beffe hanno fatto il loro bel 'coming out' e si sono presentati con nome e cognome), potrei essere così malizioso da andare a inquinare le voci riguardanti autori che mi sono antipatici, attribuendo loro falsi scritti, trascorsi pedofili, o legami coi Figli di Satana.
Chi controlla a Wikipedia non solo i testi ma anche le loro correzioni? O agisce una sorta di compensazione statistica, per cui una notizia falsa verrà prima o poi individuata?
Il caso di Wikipedia è peraltro poco preoccupante rispetto a un altro dei problemi cruciali di Internet. Accanto a siti attendibilissimi fatti da persone competenti esistono in linea siti del tutto fasulli, elaborati da pasticcioni, squilibrati o addirittura da criminal nazisti, e non tutti gli utenti del Web sono capaci di stabilire se a un sito bisogna dare fiducia o meno.
La cosa ha un risvolto educativo drammatico, perché ormai si sa che scolari e studenti spesso evitano di consultare libri di testo ed enciclopedie e vanno direttamente a prelevare notizie su Internet, a tal punto che da tempo sostengo che la nuova fondamentale materia da insegnare a scuola dovrebbe essere una tecnica della selezione delle notizie in linea - salvo che si tratta di un'arte difficile da insegnare perché spesso gli insegnanti sono tanto indifesi quanto i loro studenti.
Molti educatori si lamentano inoltre del fatto che i ragazzi, ormai, se debbono scrivere il testo di una ricerca o addirittura una tesina universitaria, copiano quello che trovano su Internet. Quando copiano da un sito inattendibile si dovrebbe presumere che l'insegnante si renda conto del fatto che dicono delle panzane, ma è ovvio che su certi argomenti molto specialistici è difficile stabilire subito se lo studente dice qualcosa di falso. Poniamo che uno studente scelga di fare una tesina su un autore molto ma molto marginale, che il docente conosce di seconda mano, e gli attribuisca una data opera. Sarebbe il docente in grado di dire che quell'autore non ha mai scritto quel libro - a meno che per ogni testo che si riceve (e talora possono essere decine e decine di elaborati) si vada a fare un accurato controllo su varie fonti?
Non solo, lo studente può presentare una ricerca che pare corretta (e lo è) ma che ha direttamente copiato da Internet per 'taglia e incolla'. Sono propenso a non ritenere tragico questo fenomeno perché anche copiare bene è un'arte non facile, e uno studente che sa copiare bene ha diritto a un buon voto. D'altra parte, anche quando non esisteva Internet, gli studenti potevano copiare da un libro trovato in biblioteca e la faccenda non cambiava (salvo che comportava più fatica manuale). E infine un buon docente si accorge sempre quando un testo è copiato senza criterio e annusa il trucco (ripeto, se è copiato con criterio, tanto di cappello).
Tuttavia ritengo che esista un modo molto efficace di sfruttare pedagogicamente i difetti di Internet. Si dia come esercizio in classe, ricerca a casa o tesina universitaria, il seguente tema: 'Trovare sull'argomento X una serie di trattazioni inattendibili a disposizione su Internet, e spiegare perché sono inattendibili'. Ecco una ricerca che richiede capacità critica e abilità nel confrontare fonti diverse - e che eserciterebbe gli studenti nell'arte della discriminazione.
Umberto Eco

08 gennaio 2006

A sinistra volano gli stracci

Molto divertente lo scambio di “complimenti” tra Beppe Grillo, i lettori del suo blog e “L’Unità”. Il tutto presentato dal giornale fondato da Antonio Gramsci (come qualcuno ogni tanto ricorda). Interessante è pure la chiamata in causa di Marco Travaglio da parte del Grillo e le risposte dei lettori. E infine, vera ciliegina sulla torta, il ragionamento di Francesco Cossiga su Travaglio. Sempre su “L’Unità” di oggi. Leggere per credere:

E sul blog di Grillo la protesta va in barca
Probabilmente Beppe Grillo se lo aspettava. Perché, come ogni blogger esperto, sa che il suo rapporto con i lettori sarà sempre in bilico fra l’identificazione e lo scontro, l’idillio e la battaglia delle idee. Era idillio quando Grillo svelava i retroscena dei crack Parmalat e Cirio, la truffa dei bond argentini, o quando sosteneva la protesta No Tav in Val Susa. È scontro ora che la crociata moralizzatrice del suo blog (www.beppegrillo.it) si scaglia contro i dirigenti Ds e l’Unità, presa di mira, insieme al suo direttore, nel suo ultimo messaggio.
Grillo critica la Striscia Rossa del 6 gennaio che recita: «Il fiorire di mammole e verginelle che si ritraggono scontrosette perché Fassino tifa per la banca delle coop e D’Alema ha la passione della barca fa sorridere. Il politico di sinistra deve andare in giro con le scarpe di pessima marca, sul pattino se gli piace il mare e vestire povero. Infatti la barca di Beppe Grillo non scandalizza nessuno, quella di D’Alema fa impressione». Parole di Vincenzo Cerami, da un’editoriale de Il Messaggero. Grillo protesta sostenenendo che è uno «scoop falso», perché «io non posseggo una barca. L’ho avuta, ma l’ho venduta la scorsa estate». Quindi l’appello a Marco Travaglio: «Travaglio vieni via, ne va della tua reputazione a rimanere lì. Se vuoi,vieni a scrivere nel mio blog». Ma il corto circuito fra natanti, finanza e opposizione dura e pura crea scompiglio fra i lettori, oltre mille i commenti postati in meno di due giorni. E a fianco dei sostenitori del comico genovese, molti prendono le distanze, criticando l’ultima invettiva.
Ci sono quelli che, come Lamberto Lamarina, pacatamente spiegano che «il fatto di avere abbastanza soldi per potersi togliere qualche sfizio» non ha «attinenza con l'integrità morale o l'essere di sinistra». E a Grillo fanno notare come «giustificarsi dicendo “l'ho venduta l'anno scorso” è ridicolo: una piccola scivolata di stile, direi...» Tesi che riscuote un certo successo. Mirko Cetra: «Sinceramente non vedo la differenza tra averla e averla avuta. Che poi faccia scandalo è una stronzata immane». E il dibattito s’infiamma: «L'idea che uno per essere di sinistra debba essere povero o addirittura far finta di essere povero per dire di essere di sinistra è a dir poco "demenziale"», scrivono Massimo e Daniela Gandolfi. «Cazzo c'entra se ce l'hai ancora o no sta barca? È che sei l' esempio vivente del predicatore milionario ai poveri», s’indigna Pierpaolo Taliento.
Polemiche anche per l’attacco a l’Unità: «Padellaro è un ottimo giornalista e l'hai criticato - osserva Marco Roverra - Ferrara ti insulta continuamente e manco hai reagito. Forse perchè su Ferrara - pachiderma puoi fare le tue battute, mentre su Padellaro potresti solo scherzare sul suo cognome. Eh no Beppe! Travaglio poi chiamato a scrivere sul tuo blog! Fai un nuovo post e chiedi scusa a Marco, a Padellaro e a l'Unità». Vincenzo Tralli va al sodo: su Padellaro «non glissare, rispondi se D'Alema ha diritto ad avere una barca come avevi tu oppure no».
E poi c’è un’altra preoccupazione: «Cerca di non remare contro, almeno in questo periodo preelezioni. Fai felice il Nano», scrive Luciano Bortolotto. E Ferruccio Ferrero: «Basta coi tuoi post sparati nel mucchio, se vuoi veramente parlar di politica abbi il coraggio di dire per chi voterai».

Intercettazioni Cossiga contro Travaglio e contro i pm
ROMA «Se si fosse trattato di politica interna avrei taciuto. Ma l'unico modo di rispondere a quel tipaccio che è Marco Travaglio sarebbe insultarlo. Tuttavia, si insultano solo le entità cui si dà dignità anche se solo negativa di persona. Il che non è il caso di Travaglio». È quanto afferma il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga commentando l'articolo di Travaglio pubblicato sull’«Unità» di ieri.
«Solo - rileva Cossiga - meraviglia il fatto che una persona per bene come Antonio Padellaro abbia tra i collaboratori del giornale fondato da Gramsci un simile cialtrone e che i gruppi parlamentari dei Ds lo paghino perchè getti addosso ai loro leader camionate di fango. Forse aveva ragione l'ex presidente peruviano Fujimori, che diceva che “la storia è proprio finita”. Adesso Marco Travaglio potrà anche dirmi, magari con conoscenza di causa, che sono gay; ed io, tra l'altro perchè non ritengo questo un insulto e inoltre perchè non credo che Travaglio sia nelle condizioni morali di poter insultare nessuno e neanche sè stesso, non gli risponderò.
« Non è “tamquam non esset”, non esiste proprio. Perchè l'essere - aggiunge l’ex Capo di stato - è collegato comunque a un valore, e chi nulla è sul piano dei valori non può neanche essere ma solo sembrare di esistere».
Per quanto riguarda Gladio - conclude il senatore a vita - «certo che Travaglio non ce lo avremmo voluto: perché venivano arruolate solo le persone per bene e che avevano i c....».

06 gennaio 2006

Insegnanti nel mirino dei talebani

Da un po' di tempo a questa parte c'è uno sport molto in voga in Afghanistan: far fare una brutta fine a chi ha pensato bene (cioè male dal punto di vista dei talebani) di dare un'istruzione alle bambine. Sì, insomma, ai maestri e ai professori che insegnano in quelle scuole in cui non si osservano alla lettera i comandamenti del Corano (o quelli che sono ritenuti tali sempre da quei signori). In Italia sembra che non se ne sia accorto praticamente nessun organo di informazione, ma per fortuna la cosa non è sfuggita ad uno dei miei blog preferiti, complice il sempre attentissimo normblog. Seguite i link per saperne di più.